Monday, April 17, 2006

TENERO COME IL CUORE DEL CROTALO - epilogo

MIA SOLA AMICA, LA FINE. (Jim Morrison)

Quel cazzo di rivolo carminio sulla camicia di shantung è stato il saluto tributato da Troy al mondo. Vivo e fertile come la sua vita che, per come la intendete voi se ne era andata e per sempre. Troy, per sempre si era tolto finalmente tolto dai coglioni e di questo l’intero universo non poteva che essergli grato. Nessuno si è ricordato di lui perché mai era stato qualcuno.
La promessa l’aveva però mantenuta: a parte il rivolo di sangue il cadavere era perfetto e bello come mai era stato in vita. Non è morto con la gloria, del tutto privata e cosciente, di un soldato mandato a combattere con l’arma della sua presuntuosa e in quanto tale eroica utopia. Troy muore senza gloria, come senza gloria sono molti dei, troppo capricciosi ed egotici per qualsiasi eroismo. E senza eroismo, senza utopie, senza nemmeno una morte con una causa certa se non per la coca Troy se ne va . Di lui non rimarrà nulla. Oggi, già dopo pochi mesi, nessuno sa chi sia e anch’io che in teoria dovrei essere ciò che rimane di lui e non so per quanto, non sono sicuro di nulla. Forse sono soltanto una voce lasciata in sospeso che morirà ora, nel momento in cui ho svolto la mia missione di peraltro molto dubbia necessità.
Un’ultima avvertenza. Come ho detto, qui ci siete tutti voi smembrati e scomposti nei vostri lati peggiori, in qualche modo comunque irriconoscibili e indistinguibili. Inizialmente vi ho chiesto scusa del mondo intero. Bene ora ho cambiato idea. Ritiro le scuse. Io ho creato voi e voi avete creato me con la stessa quantità di merda. Quindi siamo pari. I fatti che vi ho raccontato sono falsi quanto voi: per cui se riuscite, e ne dubito, a riconoscervi, è giusto che vi incazziate e facciate tutto il casino possibile. Che buon pro vi faccia. Magari voi davvero ce la farete… Comunque sia, a un dio non si addice chiedere scusa. Quindi vaffanculo.
Vostro Troy

Sunday, April 16, 2006

TENERO COME IL CUORE DEL CROTALO - capitolo 4

STEP BY STEP, HEART TO HEART, LEFT RIGHT LEFT, WE ALL FALL DOWN. LIKE TOY SOLDIERS. (Martika)

Coma girl non c’era più, dopo anni era uscita dall’universo televisivo che le era proprio. Era definitivamente entrata nell’universo che io le avevo creato. Plateale e psichedelica come la morte di Timothy Leary, tecnologica e gelida come i deliri neurali di William Gibson. Tuttavia sicuramente ne io ne lei ci saremmo aspettato che la sfera fosse così affollata al suo ingresso. C’era Jez, c’era mia madre, c’erano Finn e Jerry con tutte le loro presenza ingombranti e ormai prive di significato. Un Dio deve sapere provocare gli eventi. Staccai i cavi che tenevano in vita coma girl. Le diedi la morte, definitiva come forse lei aveva sempre desiderato. E in quell’istante fulmineo feci esplodere la sfera che tutto conteneva. Coma girl divenne una scintilla che si spense nel vuoto. Io avevo trentatre anni e mi votai definitivamente a sorella cocaina. Andavo al lavoro per tornare, almeno per otto ore al giorno Troy , il Dio che il mondo degli uomini voleva (voleva?) vedere. Era tutto fottutamente diverso. Il mio pubblico non c’era più, il Dio Troy non era che un esercizio di stile estetico e professionale portato avanti con consumata maestria ma decisamente stantio.
Era una domenica di luglio, il giorno in cui davvero il caldo rendeva il mio viso abbronzato gonfio e sudato come in preda ad una febbre tropicale. Un riga di coca dietro l’altra. Selen che gestiva tre cazzi insieme alla tv e il bicchiere grondante di whisky. La luce era lattiginosa e umida a Milano quel giorno. “Proviamo a tirare un po’ di più mi dissi”. “Dannazione un rivolo di sangue. Cazzo la camicia di shantung”. Che strano normalmente il percorso della polvere su, nella narice, la discesa nella gola con quel gusto amarognolo presagivano una forte accelerata al mio cuore e al mio stato di coscienza. Da un paio di tiri la mia vita stava rallentando (per la prima volta) e il mio battito cardiaco con lei. Che strano, per la prima volta badavo al mio cuore. Che cazzo di caldo faceva!

Monday, April 10, 2006

UNA NOTA A MARGINE

Uno dei motivi per cui ho deciso di rendere pubblico il mio romanzo su questo blog era l'anatomia di Troy. Un personaggio morto ancora prima di nascere. Un uomo fastidioso. Un uomo che annega nella sua inconsistenza. Inutile anche dopo la sua stessa morte, assurdo nel tentativo di lasciare un testamento che è un foglio bianco. Troy, purtroppo, è ancora fra noi. E' sopravvissuto in quella massa informe di qualunquismo che ha portato la destra al risultato elettorale che vediamo. Parlo di destra in quanto la parola centro mi suggerisce una flebile idea di equilibrio che non riesco proprio a riconoscere. Questa sera avrei voluto dire basta. Avrei voluto addormentarmi senza il bisogno di sognare perchè il sogno era vero. Era la consapevolezza di vivere in un paese democratico e libero. Invece il domani - probabilmente - avrà l'indigesto sapore delle cose che non cambiano mai.
Buonanotte Italia. Perchè io, se ce la faccio, vado via.

Monday, April 03, 2006

TENERO COME IL CUORE DEL CROTALO - capitolo 3

ON A BED OF NAILS SHE MAKES ME WAIT (U2)

Non c’era il tempo di dormire. Una nuova era della mia vita stava cominciando e io dovevo trovare il modo di sorpassarla. D’altra parte l’unico modo si non farmi mai sorpassare dalla vita per me è sempre stato quello di correre più veloce della vita stessa. Da un mese avevo cominciato l’università. E ciò significava tempi più dilatati che nel mio stile di vita equivaleva più tempo per dedicarmi alla cultura dei tre capisaldi della mia vita: la coca, la figa e la cura della mia immagine. Oltretutto l’ambiente totalmente nuovo mi permetteva di riproporre il mio show ad un’audience praticamente sconosciuta. L’università, mi consentiva di incrementare notevolmente il mio bilancio dall’emerito coglione, mio padre appunto. Non avevo più sopra la testa quella girandola di falsi e ipocriti controllori della mia vita travestiti da compagni di scuola e insegnanti.
Certo, l’impegno era ben più estenuante: ogni aspetto, ogni momento della mia per così dire vita doveva essere pianificato con dovizia certosina. Il mio pubblico era più adulto (seppure lasciasse molto a desiderare in quanto a consapevolezze). In ogni caso non potevo permettermi la benché minima sbavatura. Un pubblico che comunque ben presto mi avrebbe portato sul viale del tramonto. Gente strafottutamente ricca che la coca se la comprava da sola. Gente che sempre più dannatamente mi somigliava. Cloni di un Dio che non accettava nulla al di fuori di se stesso. Piano piano lo show raggiunse le sue ultime repliche. La mia parte di carne umana doveva essere ora suddivisa tra centinaia di iene fameliche che meglio o peggio utilizzavano i miei stessi strumenti. Stava davvero diventando tutto terribilmente deprimente e noioso. Stavo davvero diventando terribilmente solo e annoiato. E, lo ripeto, per gli dei la solitudine è condizione inaccettabile. Pure il mio analista mi aveva abbandonato: non c’era nulla più nulla di perverso o pervertibile da trovare in me. E visto che il lavoro duro è la ricerca e non certo la risoluzione; risoluto mi ha liquidato in un paio di sedute di allontanamento e buonanotte al cazzo. Solo il mio corpo reggeva nella sua favolosa decadenza da cocainomane. Accadde tuttavia qualcosa di speciale. Avevo appena superato la soglia dei vent’anni e un fatto straordinario si affaccia sulla mia vita. Me ne stavo a planare verso il mio usuale down esistenzialista da coca stravaccato sul divano di casa. La tv stava sonnacchiosamente monologando con me quando ad un tratto un’immagine si fece strada nel mio polveroso cervello. Si trattava di una ragazza in coma irreversibile, muta e immobile protagonista di un teleromanzo pomeridiano. Anna era depressa. Una scorpacciata di barbiturici e da quattro mesi era una bambola intubata e avvolta da una luce azzurrognola, quasi una bolla blu di vita congelata che per almeno dieci minuti ogni giorno teneva il fiato sospeso di migliaia di casalinghe che avrebbero voluto essere al suo posto. Una specie di Sunny Von Bulow, ma molto più vicina raggiungibile e, ironia della sorte, più viva. A lei mi affezionai. Alle 14 e 50 di ogni giorno la osservavo dal mio televisore: lei che tentava di allontanarsi da quel filo di vita a cui i medici la costringevano, io che - agonizzante - cercavo di attirare dentro di me, sotto forma di polvere colombiana molta più vita di quanto il mio corpo fosse davvero in grado di sopportarne. Non mi innamorai mai di lei, ma la sua “non vita”, la sua permanente precarietà in un certo senso legittimava la mia onnipotenza. Avrei voluto incontrarla un giorno. Certo che nella vita reale non sarebbe stata poi così e differente dalla “coma girl” di “Ordinary life”. Emaciata, con la voce flebile e un vestitino Ralph Lauren di almeno quattro collezioni precedenti non poi così differente dal pallido camice verde che ricopriva la sua inesistente femminilità sul letto dell’ospedale. Non avrei tentato nè di scoparla ne di rivederla. Per me era troppo importante includerla nella mia collezione di icone insieme a mamma e Jez. Coma girl rappresentava per me un momento di norma fulmineo, quello dell’incontro fra la vita e la morte, tragicamente fossilizzato da ormai centinaia di puntate sull’esatta linea di confine. Quella linea che si passa in fretta e di cui nessuno ha ricordo.
In fondo io e la coma girl eravamo le due facce di una stessa medaglia. Lei costretta per tre ore al giorno, tutti i giorni , a starsene immobile con la bocca coperta da una mascherina trasparente e percorsa da uni impercettibile filo di vita, io attraversato in continuazione da estenuanti scariche artificiali di energia: entrambi votati ad un inutile sacrificio. Ci legano quei dieci minuti catodici quotidiani, minuti scanditi da un bip costante, l’unico suo segnale della sua appartenenza al mondo degli uomini, e dal sibilo di striscioline bianche che dalle mie narici mi aprono al mondo degli dei. Una comunicazione telepatica, quasi ossessiva nella sua quotidianità e nella pienezza della sua incomunicabilità. Come due alieni che parlano linguaggi completamente diversi, marginali, primitivi e incomprensibili. Cominciai a registrarle quelle puntate, a comporle una di fila all’altra per poterle rivedere più spesso, sempre più spesso. I miei dialoghi con coma girl rappresentavano la via d’uscita, quella vera, quel momento di realtà fulminea e potentissima che, per un secondo mi davano la coscienza della potenza della vita. Quella potenza che neppure un Dio poteva immaginare.
Coma girl fu la compagna della mia vita e ben presto uscì dall’ambiente catodico a lei congeniale. Coma girl mi seguiva, si mescolava alla coca che ormai ogni giorno sbriciolavo sul mio specchio di Cartier per poi darle forma di composte striscioline. Coma girl usciva dall'utero dell’ennesima puttanella con cui consumavo i miei rituali sessuali. D’altra parte coma girl con il suo bip mi acompagnava nel sonno ed era davvero bello che a trascinarmi nell’incoscienza fosse il suo esile filo di vita artificiale.
Quasi a ricordarmi puntualmente quanto altrettanto esile fosse ormai il mio rapporto col mondo esterno. E la mia vita i primi segni di sfilacciamento cominciava davvero a mostrarli: non nel fisico, come già detto, plastificato come non mai, non nell’anima di serpente che mi era rimasta intatta, ma nella vita stessa. Mi ero davvero rotto il cazzo di tutto.
La generazione X a cui io appartenevo in piena regola aveva un motto: vivi veloce, muori giovane e possibilmente lascia un buon cadavere. Io in quanto a velocità, a parte le pause in compagnia di coma girl, andavo davvero a mille. Per il morire giovane di certo non mi stavo preparando ad una tranquilla vita da pensionato sul lago dorato. Per il buon cadavere, di questo non avevo dubbi, avrei fatto di tutto per essere il migliore.
Al limite sarei stato inghiottito dal tubo catodico del televisore a sarei andato a fare compagnia a coma girl nel letto accanto, circondato dall’odore dolciastro dei disinfettanti. Avremmo finito i nostri giorni dialogando a suon di bip, ignari alle parole di circostanza sussurrate da qualche rompicazzo del caso al nostro capezzale.
Entro i miei venticinque anni questa psicodimensione era ormai perfettamente consolidata. Le immagini, la cocaina, le donne passavano forsennatamente attraverso il mio corpo, lo fottevano allo spasimo: ero come qualsiasi di quelle ragazza delle riviste porno che sembra vivano nell’incessante bisogno di essere trapanate in tutti i buchi da cazzi grandi come dei TIR. Donne che probabilmente vanno in giro con la fica in mostra per non perdere tempo. Io il tempo me lo prendevo dopo, ancora puzzavo di sesso ma era tempo di entrare nella pulsante dimensione in cui, con coma girl, mi raccordavo con l’universo. Un ruolo prima svolto dalle mie due dee che però ormai erano davvero troppo distanti e che forse nemmeno si cagavano più il fatto che esistessi. Coma girl in un certo senso era un profezia: un involucro apparentemente mosso da fenomeni meccanici in cui, flebile, soffiava ancora un misterioso alito di vento. Ciò mi dava l’illusione che anche attraverso le mie metalliche dinamiche ci fosse quello stesso alito. A questo punto sarebbe forse lecito sapere dove stavano Finn e Gerry: probabilmente dove li avevo lasciati. Dentro di me non c’era posto che per me e per coma girl. Loro continuavano nel percorso della vita. Io stavo lavorando alla costruzione del mio universo. Un universo vuoto, enorme, con al centro il letto di coma girl avvolto da una nube blu e accanto il mio letto pronto ad attendermi. All’esterno tutto un vorticare di vita esile e insulsa come quella di formiche che tanto si affannano per finire schiacciate da un piede. Nel mio caso era un intrecciarsi di fighe, droga e tette che mantenevo in piedi solo per impedire all’avvocato del cazzo, mio padre appunto, di rinchiudermi in un istituto psichiatrico. Era curioso che la mia “apparente normalità” per così dire mi salvasse dalla rete della psichiatria nella misura in cui ci avrebbe spedito di filato chiunque altro.
A ventisette anni mi sono laureato con una tesi sulle aziende produttrici di apparecchiature medicali per la vita artificiale, pagando così il mio tributo a coma girl.
Ennesima svolta, l’ultima, della mia vita. Entrai immediatamente a lavorare in un’agenzia di pubblicità all’interno della quale mi occupavo della comunicazione healthcare. Molto diverso quindi dal mondo che mi ero prefigurato tutto paillettes e jet set. Molto consono alla noia di cui sopra. D’altra parte come poteva essere diversamente con il bip di coma girl che pulsava ormai incessantemente all’altezza della mia carotide e che si intensificava non appena la cocaina raggiungeva con il suo gusto amarognolo quella regione del mio corpo.
La figa non mi interessava in pratica più, era una piacevole abitudine che sollazzavo talvolta senza neppure usare il cazzo, ridotto com’era ad un ammasso molle di terminali nervosi ipereccitati dalla polvere bianca. Il mio quotidiano sacrificio spermatico alla terra non era che un’elegia funebre alla sterilità.
Tutta la mia energia era ormai nel mondo mio e di coma girl.
Avevo scoperto in un attimo che anche gli dei invecchiano, nel senso che in un certo senso ne arrivano di nuovi e i vecchi non se li caga più nessuno. Ne’, come già detto, possono pretendere nulla dacché non è loro dato di chiedere. Tuttavia io non ero assolutamente pronto a perdere il mio regno del cazzo: semplicemente l’avevo trasportato all’interno delle sfera blu in cui vivevo con coma girl. E grazie al mio lavoro il mondo di coma girl si arricchiva di nuovi particolari, di nuovi macchinari. Coma girl era viva più che mai ora, e lo era grazie a me, alle tecnoalchimie che io inserivo nella sfera blu al cui interno ormai cominciavo anch’io a riposare la notte. Avevo trent’anni e le avevo dato molta più vita di quella che qualsiasi corpo umano avrebbe potuto reggere. Io stesso ormai ero parossisticamente cocainomane per tenerle dietro. E’ la prima volta che associo la parola cocainomane a me stesso.
Avevo scoperto in un attimo che anche gli dei invecchiano, nel senso che in un certo senso ne arrivano di nuovi e i vecchi non se li caga più nessuno. Ne’, come già detto, possono pretendere nulla dacché non è loro dato di chiedere. Tuttavia io non ero assolutamente pronto a perdere il mio regno del cazzo: semplicemente l’avevo trasportato all’interno delle sfera blu in cui vivevo con coma gir. E grazie al mio lavoro il mondo di coma girl si arricchiva di nuovi particolari, di nuovi macchinari. Coma girl era viva più che mai ora, e lo era grazie a me, alle tecnoalchimie che io inserivo nella sfera blu al cui interno ormai cominciavo anch’io a riposare la notte. Avevo trent’anni e le avevo dato molta più vita di quella che qualsiasi corpo umano avrebbe potuto reggere. Io stesso ormai ero parossisticamente cocainomane per tenerle dietro. Parossisticamente.

Sunday, April 02, 2006

TENERO COME IL CUORE DEL CROTALO - capitolo 2

WE COULD TRY TO SAY GOODBYE TOMORROW. DON'T YOU KNOW WHERE I COME FROM. CAN'T YOU FEEL LOVE COMING ON? WHERE ARE YOU, CAN I SEE YOU TOMORROW? (Amanda Lear)

Io avevo sette anni, quando se ne è andata. Jez dodici. Jez era bella. I suoi occhi scuri fiammeggiavano su un volto pallido incorniciato da neri capelli scarmigliati come serpenti. Jez sembrava di un altro mondo, o meglio, era così dannatamente primitiva e selvaggia che sembrava l’avesse visto nascere, il mondo che noi conosciamo. Viveva di un’istintività acerba, già fiera nel mostrarmi il suo corpo e nel giocare col mio con quella casta impudicizia che grazie al cielo sfuggiva a tutte le morali e alle strafottute psicanalisi dell’universo intero. Jez sapeva amarsi e così l’amavo io. Jez è partita, una mattina, con mia madre per l’ashram di Poona. Là ha imparato ad abbracciare gli alberi, a sintonizzarsi con l’universo intero. Loro sono ancora là intente a salvare il mondo, anche se nonostante i loro sforzi il mondo continua ad arrabattarsi come può ed io gli vado dietro. Nessun dolore. Nessuna lacerazione. Quindi niente. Tanto anche mio padre sembra troppo occupato con le sue narcosedute ideologiche per accorgersi che Troy (mi verrebbe da dire il piccolo Troy) cresce, selvatico e misterioso: come un Dio arcano vomitato da un televisore.
Mi mancava Jez, avrei voluto che mi vedesse, quando avevo i primi peli sul pube e che il mio pisellino cominciava a diventare un vero cazzo che svettava maestoso sulla mia mancata infanzia ormai al termine. La scuola che frequentavo era una scuola speciale, Steineriana per l’appunto: l’unica in cui il grande Troy poteva essere un marziano tra i marziani, di quelle in cui potevi tranquillamente tirare fuori l’uccello davanti al maestro e questo diventava automaticamente l’oggetto della lezione: veniva vivisezionato in ogni minimo particolare.
Perché veniva fuori l’omosessualità latente, il complesso di Edipo finalmente risolto. Invece era semplicemente che il maestro ti rompeva i coglioni e cercavi di farti sbattere fuori dall’aula. A scuola andavo bene. Non poteva andare diversamente: io ero Troy, figlio dell’avvocato Suasantità Giorgio Greco e della pittrice Adelaide (magari ora nemmeno si chiamava più così) partita un giorno e assunta a Dea insieme alla sua principessina Jez. Io me le immaginavo entrambe come in una di quelle immaginette colorate che gli Hare Krishna ti distribuiscono per strada: con gli occhi neri e profondi di kajal e mille alberi e animali intorno. Ma torniamo a me e alla scuola. A fronte di tanta santità nella mia apocalisse familiare io non potevo che essere l’anticristo. Primo: non ero neanche stato battezzato (con un nome così…). Secondo: ero introverso ma allo stesso tempo avevo l’astuzia fredda e calcolata di un serpente nel fare in modo che i compagni si scannassero tra loro ed intervenire nel momento esatto per fare la mia porca eroica figura. Tanto per darvi un’idea, una volta in un duello all’ultimo sangue per la faccina della piccola Rachele io sono intervenuto all’ultimo minuto a separare i contendenti che nel frattempo si erano rispettivamente fracassati naso e gomito. La gratitudine di tutta la scuola, Rachele compresa, mi è piovuta addosso improvvisamente. A me, quel grande eroe che non aveva nemmeno un piccolo graffio a testimonianza del fiero combattimento. In pratica ero come quei generali che escono solo a battaglia terminata per la fotografia che li renderà immortali agli occhi dei posteri. I soldati non meritano ciò: crepano e vaffanculo.
Rachele mi amava, a me non fregava un cazzo e le mie quotazioni salivano vertiginosamente perché neppure approfittavo della situazione.

Da sempre sapevo che rinunciare apparentemente al trionfo sarebbe stata la mia consacrazione finale.
Io tornavo a casa chiuso nel mio imperscrutabile silenzio (in fondo non avevo un cazzo da dire agli altri) e li mi godevo il mio vero trionfo: quello dell’inganno perfetto. Che durava fino al rientro di mio padre (l’unico con cui cercavo una minima comunicazione: con la filippina, capirete, era molto dura e quantomeno inopportuna). Talvolta S.S. Avv. Giorgio Stocazzogreco rientrava, talvolta no. Nel senso che talvolta le portava in casa, altre volte aveva il buon gusto di scoparle in albergo. Non che mi stessero sui coglioni, le sue amichette, anzi perlomeno per quelle due ore di cena insieme fingevano un affetto da serial. Si, un telefilm americano, solo più colorato e infinitamente più chic. Io mi godevo tutto l’imbarazzo e i regali vomitati da cotanto garbo, mio padre si assicurava la sua scopata e tutti felici e contenti. In queste prove generali per diventare la signora Stocazzogreco in realtà nessuna ne è uscita vincente. D’altra parte non capivo nemmeno l’opportunità di tanti sforzi. Era chiaro che l’avvocato aveva sposato la sua Dea indiana e che mai si sarebbe andato oltre il rimescolamento di qualche liquido organico con un comune mortale. D’altra parte nemmeno capivo tanta fatica da parte di quelle donne. Se devi fare la puttana (e di puttane si trattava visto che normalmente erano le sue segretarie) fallo alla grande! Non scopi con un avvocato che di promettente ha soltanto la vocazione a restare tale. Semmai ti intruppi con qualcuno che ha, almeno in fatto di soldi, stramantenuto la sua promessa di successo personale. Mio padre d’altra parte rimaneva fedele, come me, alle sue dee indiane. La loro assenza era l’unica chiave del nostro rapporto. Delle rare tenerezze tra me e sua santità ricordo quei giorni al mare, quell’azzurro enorme che ci ricongiungeva a loro, quell’enorme sole ardente che ci aspettavamo potesse far da corona all’ascensione al cielo della Dea Adelaide e della principessa Jezabel. Loro, la Dea e la principessa, intanto continuavano ad abbracciare gli alberi. Dopo un po’ anche papà ebbe la Sua folgorazione. Il volto della mia casa mutò velocemente d’aspetto. E in un battibaleno dal Taj Mahal ci eravamo trasferiti in una cascina del Donegal. Il pantheon indiano si era sgretolato ai piedi dell’antica saggezza druidica. Dal cibo, alla musica e ai libri di mio padre tutto era rigorosamente irlandese. Unica eccezione l’odore delle canne. Sempre quello ovunque. La Dea Adelaide e la principessa Jezabel erano morte. Per sempre cacciate da un incantesimo chiamata Patricia. Patty si era installata in casa mia con il piccolo Finn, un bastardo più o meno della mia età nato (allora avevo dieci anni) in una comune del Sussex. Per me era diverso. Le mie Dee erano vive più che mai. Io cercavo ancora la mia India i cui segnali erano le cartoline rare – e sempre più rarefatte – che con ossessiva puntualità arrivavano da Poona. Contenevano poche parole e perlopiù incomprensibili: normalmente erano il nuovo mantra suggerito da Osho. Amavo quelle cartoline. Allora per me erano un atto d’amore puro, nemmeno mi richiedevano una replica: l’amore che non necessita di essere corrisposto. Per quanto mi riguarda l’entrata in scena di Pat ha surgelato, fino a quando è restata, il rapporto con Sua ex-santità l’avvocato. Con Finn invece era diverso, ci siamo subito rifugiati in quella naturale e opportunista solidarietà che accomuna i bastardi del mondo. Durò poco più di due anni. La sua timidezza irlandese era il perfetto contenitore del mio vampirismo affettivo. Uniti da un karma ineluttabile: quello dell’immenso e gelido vuoto che ci avvolgeva. Forse anche un’opportunità però: quella di colmare quel vuoto nel modo che meglio ci aggradava, di prendere comunque le distanze dal folcloristico e patetico amore celtico che Pat e mio padre si ostinavano a tenere in scena. Una serie infinite di repliche di uno stantio varietà da provincia. Pat se ne andò dopo due anni e papà votò se stesso e questa volta definitivamente al culto della risorta Dea Adelaide e della principessa Jezabel. Per quanto mi riguarda la Società per Azioni Finn & Troy continuava la propria attività in gran stile e anche meglio, privata com’era di quella triste coreografia di Pat e Sua ex-santità.
Io compivo tredici anni, Finn ne aveva solo dodici: lui cresceva io ero già grande. Grande nella mia inconsistenza, nel vivere a lato delle cose e nell’appropriarmi opportunisticamente dei – rari – momenti di gloria che di rigore, sarebbero dovuti appartenere ad altri. A dodici anni ebbi il mio primo approccio col sesso: una gloriosa masturbazione con un fotoromanzo porno. Mi sentivo come un Dio con quel cazzo turgido in mano che, per la prima volta, mi stava consentendo di conquistare il mondo sommergendolo di liquido bianco, fertile e filaccioso. Da allora non persi occasione per celebrare quotidianamente il mio sacrificio spermatico all’universo. Come se quelle gocce di sperma che improvvisamente schizzavano nella bianca porcellana del cesso dovessero fecondare il mondo intero. Non mi bastava. Il giorno seguente alla mia prima sacra sega andai da Finn, gli mostrai il fotoromanzo e lo smanettai fino a farlo venire: mi appropriai così del suo primo e quindi più importante e intimo atto della sua pubertà. Lui me ne ringraziò. Io, dentro di me, feci altrettanto: anche lui, ora, era mio. Io e Finn eravamo assolutamente complementari. Io ipermetrope, lui perso nella sua miopia. Lui si innamorava delle ragazzine ebbro di esaltazione romantica adolescenziale. Loro lo accartocciavano con fiero distacco. Io le facevo mie, mostrandomi più gelido di un iceberg. Loro mi mollavano e tornavano a farsi riempire cuore e figa dal tormentato Finn. Altro giro, altro regalo. Naturalmente, con tali presupposti, gli amori di Finn erano sempre terribilmente desolanti e disperati, Troy invece era sempre pronto ad una nuova conquista, arrogante e fiero nel vivere col cuore di Finn.
Un giorno, avevamo quattordici anni, fa il suo ingresso in scena Gerry. Magro e delicato, un po’ buffo dietro ai suoi spessi occhiali azzurrati. Gerry era di quelli che alle feste faceva democraticamente il filo a tutte le ragazze presenti. Tutte lo rifiutavano e Gerry se tornava a casa con lo stomaco pieno d’alcool e di una collezione infinita di no. Non solo. Gerry aveva una peculiarità. La sua vista riusciva a focalizzare solo dettagli d’immagine. Come se i suoi occhi fossero specchi frantumati. Per questo camminava inciampando, faceva strani movimenti con la testa, e, se andava al cinema, ne usciva completamente stordito dal goffo tentativo di mettere insieme i pezzi dello schermo come se si trattasse di tessere di un puzzle nella cornice dei suoi occhi. Una sera Gerry mi sorprese mentre fuori da un bar, ubriaco perso, stavo tributando l’ennesimo rito spermatico. I suoi occhi ebbero un fulmineo contatto coi miei. Poi dritti al mio cazzo. La patta si richiude rapidamente. Il volto di Gerry si trasforma nella maschera di chi, controvoglia, prende contatto con la propria tragedia. Gerry era frocio.
Non dimenticherò mai quel suo sguardo. In ogni caso quella pantomima di un minuto bastò a farmi decidere che Gerry entrava, da quel momento, nel club dei bastardi del mondo con tutte le carte in regola. Io, Gerry e Finn eravamo l’esatto compimento di un sistema perfetto quanto l’alternarsi della sera alla mattina. Tutti e tre “diversi”, più che amici eravamo una società di mutuo soccorso. Forse quel comune bisogno era davvero il sentimento più grande e inattaccabile che ci potesse essere. Gerry non mi rivelò mai apertamente di essere gay: lo scoprii solo anni più tardi quando, sceso dal metrò con la vescica in detonazione, corsi al cesso della stazione e mi si parò di fianco la drammatica e orgasmante faccia di Gerry subito prima che un anziano signore riemergesse dal separé dell’orinario. Comunque fosse, frocio o no, Gerry era dei nostri. Lo dimostravano quelle distanze incolmabili fra noi e gli altri, le stesse distanze che separavano ognuno di noi da se stesso. Queste distanze convinsero, simultaneamente, mio padre a precipitarmi nella vertigine psicanalitica. Anni e anni di sedute che legittimavano un mondo capovolto dove l’immoralità regnava sovrana e quindi mi faceva cagare ancora di più della morale stessa. Lui, il mio analista, brillava di soddisfatto entusiasmo se dicevo “stanotte ho sognato di scopare mia madre” o se dicevo “ho seriamente pensato ad organizzare uno stupro collettivo”. Se invece sognavo di mangiare o di fare un viaggio in Cina la faccia si faceva subito delusa e seriamente preoccupata. Se collego tutto ciò allo stronzo sul letto dei miei e alla faccia soddisfatta di mio padre capirete che probabilmente era in atto una misteriosa cospirazione per fare di me un serial killer.
Ero quasi arrivato a innamorarmi, senza tutti gli stracazzi di Finn e Gerry: ma bastò che il dottor Stranamore mi inoculasse il virus “staicercandolamoreperlamore” che in un nanosecondo avevo già mandato a fottersi la mia protofidanzata e mi ritrovavo di nuovo col cuore a pezzi e il cazzo in mano. Per quanto riguarda Finn bastavo io a difendere ogni attacco analitico teso a distruggere la sua sana anima disturbata. Per Gerry probabilmente fu invece la finale consacrazione alla frociaggine eterna. Magari se non fosse stato per lo psicologo dello stracazzo a quest’ora nemmeno si trovava a farsi fare i pompini dai vecchi nella stazione. Per le stesse ragioni probabilmente nemmeno io e Finn avremmo programmato il resto della nostra vita a stramazzarci di coca.
Omosessuali o eterosessuali, monomaniaci o borderline volevamo solo essere amati. Potrei dire volevamo, a modo nostro, essere amati. No, volevamo essere amati e basta, in qualsiasi modo. E invece no, eravamo a nostro modo delle rappresentazioni di noi stessi, piccoli uomini destinati a non crescere più, soldatini di piombo che sarebbero diventati Dei del nulla. Tutti tranne uno. Gerry infatti di li’ a poco sarebbe uscito dalla Società della Buona Morte Interiore. A me del fatto che fosse gay non fregava un cazzo, ma il profeta personale sottoforma di analista di Finn pensò bene di entrare in azione. “Forse il tuo bisogno di frequentare un omosessuale nasconde l’incapacità di prendere contatto col tuo femminile e di esprimere la tua di omosessualità”. Primo: che cazzo ne sai tu dei nostri bisogni quando le persone preposte a conoscerli e a soddisfarli, i nostri genitori, si sono resi in tal senso latitanti da tutta una vita.
Secondo: queste sono le palle che racconti più o meno a tutti per convincerli a passare almeno un’altra decina d’anni in tua compagnia.
Terzo: dovresti almeno avere il buon gusto di sforzarti di entrare davvero dentro qualcuno, e se lo facessi probabilmente ti ingozzeresti di psicofarmaci ed entro una settimana fine del film.
Per amore di cronaca, e tornando a Finn, Gerry fu scaricato nel giro di un giorno con una scusa qualsiasi (a nessuno a sedici anni piace sentire compromessa quella fatidica virilità così dubbiosamente e faticosamente costruita). Di fronte alla scelta tra un gay e un disadattato io non ebbi la benché minima esitazione. Gerry mi piaceva pure. Finn mi consentiva di portare avanti al gioco, quindi ben venga Finn e vaffanculo. Gerry invece esordì, anni più tardi come trasformista (o meglio travestito) in un bar del centro dove si esibiva ondeggiando in playback le canzoni di Patty Pravo.
Con Gerry fuori dai coglioni il sodalizio tra me e Finn risorse più potente che mai, simbiotici e inseparabili (strano che i nostri rispettivi analisti non fossero riusciti a omosessualizzare la nostra relazione: forse era davvero troppo banale e normale per la loro geniale intuizione).
Arrivò l’estate. Finn e Troy partirono insieme destinazione UK. Tutto normale se non ché all’ultimo giorno si aggiunse Roberta mia cugina. Mia zia Lara aveva infatti deciso di partire con sua santità mio padre e la sua ex-principessa dei miei coglioni Pat per un corso di meditazione trascendentale nella campagna toscana. La figlia quindi veniva debitamente parcheggiata a noi. Roberta, era una ragazza di quindici anni. Quando la vidi, per la prima volta dopo dieci anni, mi trovai di fronte una specie di contessina tutta superlativi: carinissima, discretissimamente biondissima, sofisticatissima ed elegantissima nel suo miniabito Armani kaki. Sembrava avesse tatuata in fronte la scritta “ho studiato dalle Marcelline”. Di quelle tipe votate a rimaner così per i prossimi cinquant’anni, congelate nella loro giovinezza da puntuali interventi di chirurgia estetica. L’esatto contrario di me che in pratica cambiavo pelle ogni giorno e a seconda della convenienza. Il carrè biondo incorniciava un viso leggermente spigoloso e finto acerbo, mentre il lungo collo di cigno era adornato da un filo di perle marca Giuda. Com’era diversa da Jez! Partimmo con la piccola stronza al seguito catapultati su un volo per Londra. Li ci avrebbe ospitati la sorella di sua ex-principessa dei miei coglioni. Nel momento stesso in cui mettemmo piede in casa mi accorsi che qualcosa stava accadendo tra le tendine country Laura Ashley che stridevano inesorabilmente con una dimora decisamente mediocre rispetto al santuario multietnico e panteista a cui ero abituato. Per una volta il cuore di Troy ebbe un sussulto. Una fitta rapida e violenta come un colpo di pistola. La sera stessa, a cena fui incapace di parlare: le idiozie di circostanza di Roberta scivolavano come l’acqua nella tazza del cesso. Eppure qualcosa stava succedendo. Anche Troy, il grande Troy era quindi capace di innamorarsi? Della strafottutissima cugina? Il mio castello di ingorda arroganza stava crollando? Si, stava crollando qualcosa e, apparentemente, per sempre. Finn si era innamorato, davvero. Il suo sfigatissimo e melenso aspetto da cuore in perenne, patetica agonia aveva fatto breccia nell’abitino Armani ad altezza cuore. E io ero li. Non potevo far nulla stavolta se non osservare impotente quel ributtante fiorire di sentimenti perfettamente in sintonia con i fiori agonizzanti che facevano capolino dalle tende di casa. La sera stessa li sentii, nel letto accanto, far l’amore. Io, che l’amore l’avevo fatto sempre e solo con me stesso anche quando scopavo le altre. Loro erano li a pochi metri da me che con brevi e discreti sussulti si scambiavano la pelle. Io, la pelle, la buttavo nel cesso quando era conveniente dare una rinfrescata al mio personaggio, cosa che peraltro accadeva quasi ogni giorni.
Io ero li. Nemmeno avevo voglia di masturbarmi. Erano così lontani da qualsiasi feticcio erotico. Loro finirono. Rimase l’odore, quell’odore di corpi sudati d’amore che per me era nauseante come la merda sotto le suole delle scarpe mentre entri in auto.
Nulla. Al momento non potevo fare nulla. Ci dormii sopra: un febbricitante sonno di vertigini emotive.
Passavano i giorni e loro continuavano a lasciare sul mio cammino le dolciastre e vischiose scie del loro strafottutissimo amore. Il destino mi venne incontro: la sera del quattro luglio fummo invitati ad una festa al Camden Palace. L’America intera in quel giorno stava festeggiando il giorno dell’indipendenza, mentre io nella vecchia Europa mi riappropriavo di ciò che mi era stato tolto. Camden Palace quindi. Un’ipotesi fin troppo ghiotta per poter essere rifiutata anche dai due fidanzatini. All’interno della discoteca trovai l’occasione di comprare l’acido. Fu il mio primo contatto con la droga e l’inizio di un lungo sodalizio: Troy stava per tornare a poggiare nuovamente il suo regal culo sul trono che gli spettava. La proposta di un viaggio artificiale non lasciò indifferenti neppure i due peccatori di Peyton Place che assunsero con me le caramelline della felicità. Riuscimmo a rientrare a casa dopo un paio d’ore con i terminali nervosi in preda ad una convulsa elettricità. Il loro tenero amore si stava per trasformare in una lisergica e forsennata kermesse psicosessuale. Ma questa volta c’era qualcosa di diverso, c’ero io. La sovreccitazione forsennata dell’acido mi permise di strisciare tra i loro corpi senza troppa fatica e in un istante la tenera e rosea love story si trasformò in una maratona erotica a tre. Finn era talmente fuori che arrivò a succhiarmi il cazzo. A me la cosa in se non piaceva un granché, ma era il primo passo per ristabilire certi equilibri. Mentre La santa puttanella dei paradisi artificiali stava facendo un pompino a Finn io le leccavo la fica. Le morsi con forza il clitoride. Simultaneamente e con paradossale simbioticità Finn le strizzò con forza i capezzoli. Lei s’incazzò, corse in bagno davvero “toccata nella sua sensibilità” e non riapparve se non nel momento in cui io e Finn, eravamo appena venuti con la più improbabile e allucinante sega che il mondo intero avesse mai visto. Il sistema, ancora una volta, aveva trovato il proprio equilibrio originario. Finn a struggersi per il resto della vacanza col suo sogno romantico caduto nel cesso. La puttanella santa pronta a darla a chiunque avesse una faccia diversa dalla nostra. Io, come prima e meglio di prima: quando un Dio cade e risorge diventa ancora più potente perdipiù se con sospetto di una vena sadica verso il sesso opposto. Rien ne va plus.

La mia rinnovata potenza corrispondeva perfettamente ad una ulteriore perdita di midollo spinale di Finn. Solo io, ormai, mi stavo decisamente emancipando dalla sua schiavitù. Ero pronto a debuttare da assoluto protagonista sulla scena. La spalla non mi serviva più. Con questo non voglio dire che scaricai definitivamente Finn. In primo luogo non potevo rifiutargli la tradizionale solidarietà che era stata la chiave del mio successo. A mio modo continuavo a volergli quel bene cortese che si tributa agli amici d’infanzia in nome del glorioso passato. Finn era molto semplicemente sceso dal palcoscenico e ora faceva parte del pubblico mediocre e bigotto che applaudiva ogni mia interpretazione e che faceva da contenitore alla mia straripante vanità. Dal canto mio, come si conviene ad un Dio, stavo avviandomi ad una carriera di vittima e carnefice di me stesso. Gli Dei, nella loro onnipotenza, sono terribilmente soli. E della solitudine degli Dei non frega niente a nessuno. Agli Dei si chiede molto: raramente si da’ qualcosa. D’altra parte non ne fui mai cosciente, e questo fu per me una gran fortuna.

Autunno 1984: ritorno a scuola. 18 anni, e, per un attimo esco dal mio inferno privato. Finn in secondo piano, Gerry brillantemente avviato ad una carriera di omosessuale in prima linea, Troy che scende sulla terra e si incarna. Il contatto con una potenzialità d’uomo ben presto caduta nel nulla mi da’ una parvenza di realtà. Basta birra, basta acidi, basta tutto. A scuola bene come sempre. Le ragazze diventano una ragazza. E’ una compagna si scuola e si chiama Rebecca. Lei s’innamora e io mi sforzo di fare altrettanto. Mi dico che l’amo a tal punto che le inculerei l’anima. Giorni veloci, lunghi weekend sul lago con i suoi genitori (gli usuali dinosauri del sessantotto), tenere scopate sul tappeto della sala da pranzo. Arrivo perfino a sfiorare la vita reale. Rebecca non è particolarmente bella. Ha un viso lungo con la fronte seghettata da una frangia bionda. Non è neppure particolarmente intelligente. E’ ciò che io non sono mai stato: normale. L’ammiro per questo. E’ un’icona della mediocrità, quella mediocrità fatta di buon senso e buone maniere lontana mille miglia dalla mia misera e artificiosa nobiltà. Con lei non ho più bisogno di mandare avanti il mio personaggio. Per una volta potrei bastare io. Lei d’altra parte non mi chiede di più, anzi mi regala quegli attimi di realtà che non ho mai conosciuto. Anche il sesso, ecco, il sesso. Con lei sono oltre al mio cazzo. Niente prodezze erotiche. Giusto un onesto fare l’amore. Mi ripeto che con lei non serve il personaggio. Il problema è che se vado a vedere cosa c’è oltre non trovo nulla. Il problema è che lei se ne accorge. Il problema è che proprio non ce la faccio. Il problema è che i miei genitori, la psicanalisi e i vari cazzi mi hanno segnato molto di più di tutta la droga del mondo. Il problema e che lei se ne accorge e poco prima di Natale mi lascia col culo per terra. Gli Dei, nella loro onnipotenza, sono impotenti verso se stessi. La mia vita era comunque cambiata. Con la maggiore età stavo infatti rapidamente sviluppando un nuovo istinto. La mia sete di sangue e cuori umani d’ora in poi sarebbe stata selettiva. Non avrei più firmato condanne: non una delle mie prede sarebbe comunque sopravvissuta malgrado me. In pratica avrei indirizzato le mie scelte verso soggetti comunque destinati ad essere vittima di una specie di selezione naturale. E di questa selezione naturale, d’altro canto, neppure ero stato io a decidere le regole. Come i tacchini sotto Natale: tu puoi anche decidere di non mangiarli, lo farà qualcun altro e ancor prima che qualcuno lo decida verranno comunque uccisi e posti a far mostra di se sul banco dei macellai. Questa mia, per così dire, nuova sensibilità aveva poi arricchito il mio personaggio di nuove sfumature, lo aveva in un certo senso completato a tal punto che tutta la messinscena precedente era diventata una rozza e ingenua pantomima di fronte alla gelida raffinatezza che avrebbe assunto il mio gioco da li in poi. D’altra parte anche gli strumenti con la maggiore età erano cambiati. E l’ambiente in cui vivevo me ne forniva altri nuovi e decisamente più costosi. Sua santità l’avvocato continuava bellamente a scoparsi le sue segretarie e a strafottersene di me. D’altro canto la mia unica preoccupazione nei suoi confronti era fare in modo che non si esaurisse il flusso di denaro che affluiva copioso nelle mie tasche a compensare la sua assenza. Davvero stronzo. E coglione. Era sempre stato assente, quindi mai avrei notato una differenza nel suo comportamento. Comunque tutti quei soldi mi servivano. Quindi andavo bene a scuola. Quindi curavo il mio aspetto come la migliore delle puttane d’alto bordo. Quindi il mio amato investitore sganciava ancora di più. I miei gusti si erano fatti davvero raffinatissimi. Dal lunedì al sabato mattina un’impeccabile total look Giorgio Armani, faccia rasata a culo di neonato e orpelli vari. Dal sabato pomeriggio in poi Bodymap, World’s End e copriocchiaie per nascondere i gloriosi ma disdicevoli segni dell’abuso di cocaina (l’acido era diventato davvero troppo out). Da domenica a domenica perenne abbronzatura tropicale e capelli scolpiti.
Non avevo amici, ma solo una strampalata cour des miracles con soggetti sempre diversi che mi accompagnava nelle mie forsennate notti da fine settimana. Normalmente avevo la casa libera. Tre “spalle” (non uno di più, non uno di meno) una sola fanciulla, tantissima coca. La trama me la dava il mio analista. Tutti strafatti e una sedia al centro della stanza. A turno ciascuno di loro inscenava la propria psicodrammatica e patetica espansione della coscienza sotto l’abile regia del deus ex machina Troy. Il giorno dopo ciascuno di loro avrebbe avuto qualcosa di cui vergognarsi tranne me e la fanciulla che irrimediabilmente finiva per darmela. Le discoteche le lasciavo agli altri e le utilizzavo sostanzialmente in quei rari casi di scarsità di carne umana. In fondo non ero diverso dai miei coetanei che sniffavano per ottenere i punteggi più alti ai videogame. Io il videogame me l’ero costruito su misura, ne avevo stabilito le regole e prevedeva sempre un unico vincitore. Me, appunto.
Almeno io un contatto umano seppur gelido come il marmo lo portavo a casa.
E per di più lo avvolgevo in una vertigine forsennata di sensi che nessuna di loro, senza di me avrebbe neanche potuto immaginare. Ciascuna di queste vampire che mi prosciugavano sangue e sperma durava si e no un paio di settimane. Che considerando il ritmo di una scopata alla settimana significava in media un paio di interazioni in tutto. Poi venivano ingloriosamente lasciate a sbranarsi con la propria stessa fame. Probabilmente avevano anche dei nomi, ma davvero, viste le forsennate circostanze, mi era, e mi è tuttora, davvero difficile ricordarli. Tutto ciò che ricordo sono quei fastidiosissimi peli di fica che si aggrovigliavano ai miei denti. Il mio pantheon indiano continuava a scandire il proprio calendario con l’enigmatica serie di mantracartoline di cui ne a me, ne a mio padre importava più un cazzo. Loro c’erano sempre, entrambi le adoravamo come sempre, ma la fica ci prendeva veramente troppo tempo per poterci occupare concretamente delle loro puttanate che, tra l’altro, non eravamo neppure in grado di comprendere. Oltretutto, per quanto ne sapevamo (e nel caso di Jez era una certezza), potevano essere molto diverse da come le ricordavamo. Con mio padre non ne parlavo ma con lui d’altra parte non parlavo di nulla al di fuori della filastrocca quotidiana ciaocomestaibeneetu. L’unico momento di comunicazione ci fu quando l’anima pia della cuginetta bastarda, Roberta appunto si premurò di informare il mio legittimo genitore circa il mio personalissimo modo di condurre il weekend. Per le scopate non mi disse nulla (ci mancherebbe). Per la droga credo lo preoccupasse molto il pensiero di dover impiegare tempo e denaro per “recuperarmi” (oltre alla seccatura dei pettegolezzi). Rassicurarlo fu anche troppo semplice: gli dissi che chi faceva uso di stupefacenti non poteva andar bene a scuola. L’avvocato dei miei coglioni capì immediatamente che non era assolutamente conveniente approfondire. Chiuso l’incidente, se non fosse per quella troia di mia cugina che ricevette una telefonata in cui veniva dolcemente invitata ad impiccarsi al tubo del cesso. Così bastava tagliare la corda e tirare l’acqua. Non solo: avrei fatto in modo che non vedesse più un cazzo fino a che la sua fica non avesse avuto le ragnatele. E così fu: qualche parola sussurrata all’orecchio giusto e la cara Roberta avrebbe potuto chiudersi in convento e nessuno avrebbe notato la sua assenza. Dio mio, come eravamo tutti fragili e manipolabili. Di li a un mese anche la cuginetta infoltiva la schiera degli adolescenti disturbati e pronti al lavaggio settimanale di materia grigia. Non che tutto ciò lo trovassi particolarmente divertente ma era questione di giustizia.