Monday, April 03, 2006

TENERO COME IL CUORE DEL CROTALO - capitolo 3

ON A BED OF NAILS SHE MAKES ME WAIT (U2)

Non c’era il tempo di dormire. Una nuova era della mia vita stava cominciando e io dovevo trovare il modo di sorpassarla. D’altra parte l’unico modo si non farmi mai sorpassare dalla vita per me è sempre stato quello di correre più veloce della vita stessa. Da un mese avevo cominciato l’università. E ciò significava tempi più dilatati che nel mio stile di vita equivaleva più tempo per dedicarmi alla cultura dei tre capisaldi della mia vita: la coca, la figa e la cura della mia immagine. Oltretutto l’ambiente totalmente nuovo mi permetteva di riproporre il mio show ad un’audience praticamente sconosciuta. L’università, mi consentiva di incrementare notevolmente il mio bilancio dall’emerito coglione, mio padre appunto. Non avevo più sopra la testa quella girandola di falsi e ipocriti controllori della mia vita travestiti da compagni di scuola e insegnanti.
Certo, l’impegno era ben più estenuante: ogni aspetto, ogni momento della mia per così dire vita doveva essere pianificato con dovizia certosina. Il mio pubblico era più adulto (seppure lasciasse molto a desiderare in quanto a consapevolezze). In ogni caso non potevo permettermi la benché minima sbavatura. Un pubblico che comunque ben presto mi avrebbe portato sul viale del tramonto. Gente strafottutamente ricca che la coca se la comprava da sola. Gente che sempre più dannatamente mi somigliava. Cloni di un Dio che non accettava nulla al di fuori di se stesso. Piano piano lo show raggiunse le sue ultime repliche. La mia parte di carne umana doveva essere ora suddivisa tra centinaia di iene fameliche che meglio o peggio utilizzavano i miei stessi strumenti. Stava davvero diventando tutto terribilmente deprimente e noioso. Stavo davvero diventando terribilmente solo e annoiato. E, lo ripeto, per gli dei la solitudine è condizione inaccettabile. Pure il mio analista mi aveva abbandonato: non c’era nulla più nulla di perverso o pervertibile da trovare in me. E visto che il lavoro duro è la ricerca e non certo la risoluzione; risoluto mi ha liquidato in un paio di sedute di allontanamento e buonanotte al cazzo. Solo il mio corpo reggeva nella sua favolosa decadenza da cocainomane. Accadde tuttavia qualcosa di speciale. Avevo appena superato la soglia dei vent’anni e un fatto straordinario si affaccia sulla mia vita. Me ne stavo a planare verso il mio usuale down esistenzialista da coca stravaccato sul divano di casa. La tv stava sonnacchiosamente monologando con me quando ad un tratto un’immagine si fece strada nel mio polveroso cervello. Si trattava di una ragazza in coma irreversibile, muta e immobile protagonista di un teleromanzo pomeridiano. Anna era depressa. Una scorpacciata di barbiturici e da quattro mesi era una bambola intubata e avvolta da una luce azzurrognola, quasi una bolla blu di vita congelata che per almeno dieci minuti ogni giorno teneva il fiato sospeso di migliaia di casalinghe che avrebbero voluto essere al suo posto. Una specie di Sunny Von Bulow, ma molto più vicina raggiungibile e, ironia della sorte, più viva. A lei mi affezionai. Alle 14 e 50 di ogni giorno la osservavo dal mio televisore: lei che tentava di allontanarsi da quel filo di vita a cui i medici la costringevano, io che - agonizzante - cercavo di attirare dentro di me, sotto forma di polvere colombiana molta più vita di quanto il mio corpo fosse davvero in grado di sopportarne. Non mi innamorai mai di lei, ma la sua “non vita”, la sua permanente precarietà in un certo senso legittimava la mia onnipotenza. Avrei voluto incontrarla un giorno. Certo che nella vita reale non sarebbe stata poi così e differente dalla “coma girl” di “Ordinary life”. Emaciata, con la voce flebile e un vestitino Ralph Lauren di almeno quattro collezioni precedenti non poi così differente dal pallido camice verde che ricopriva la sua inesistente femminilità sul letto dell’ospedale. Non avrei tentato nè di scoparla ne di rivederla. Per me era troppo importante includerla nella mia collezione di icone insieme a mamma e Jez. Coma girl rappresentava per me un momento di norma fulmineo, quello dell’incontro fra la vita e la morte, tragicamente fossilizzato da ormai centinaia di puntate sull’esatta linea di confine. Quella linea che si passa in fretta e di cui nessuno ha ricordo.
In fondo io e la coma girl eravamo le due facce di una stessa medaglia. Lei costretta per tre ore al giorno, tutti i giorni , a starsene immobile con la bocca coperta da una mascherina trasparente e percorsa da uni impercettibile filo di vita, io attraversato in continuazione da estenuanti scariche artificiali di energia: entrambi votati ad un inutile sacrificio. Ci legano quei dieci minuti catodici quotidiani, minuti scanditi da un bip costante, l’unico suo segnale della sua appartenenza al mondo degli uomini, e dal sibilo di striscioline bianche che dalle mie narici mi aprono al mondo degli dei. Una comunicazione telepatica, quasi ossessiva nella sua quotidianità e nella pienezza della sua incomunicabilità. Come due alieni che parlano linguaggi completamente diversi, marginali, primitivi e incomprensibili. Cominciai a registrarle quelle puntate, a comporle una di fila all’altra per poterle rivedere più spesso, sempre più spesso. I miei dialoghi con coma girl rappresentavano la via d’uscita, quella vera, quel momento di realtà fulminea e potentissima che, per un secondo mi davano la coscienza della potenza della vita. Quella potenza che neppure un Dio poteva immaginare.
Coma girl fu la compagna della mia vita e ben presto uscì dall’ambiente catodico a lei congeniale. Coma girl mi seguiva, si mescolava alla coca che ormai ogni giorno sbriciolavo sul mio specchio di Cartier per poi darle forma di composte striscioline. Coma girl usciva dall'utero dell’ennesima puttanella con cui consumavo i miei rituali sessuali. D’altra parte coma girl con il suo bip mi acompagnava nel sonno ed era davvero bello che a trascinarmi nell’incoscienza fosse il suo esile filo di vita artificiale.
Quasi a ricordarmi puntualmente quanto altrettanto esile fosse ormai il mio rapporto col mondo esterno. E la mia vita i primi segni di sfilacciamento cominciava davvero a mostrarli: non nel fisico, come già detto, plastificato come non mai, non nell’anima di serpente che mi era rimasta intatta, ma nella vita stessa. Mi ero davvero rotto il cazzo di tutto.
La generazione X a cui io appartenevo in piena regola aveva un motto: vivi veloce, muori giovane e possibilmente lascia un buon cadavere. Io in quanto a velocità, a parte le pause in compagnia di coma girl, andavo davvero a mille. Per il morire giovane di certo non mi stavo preparando ad una tranquilla vita da pensionato sul lago dorato. Per il buon cadavere, di questo non avevo dubbi, avrei fatto di tutto per essere il migliore.
Al limite sarei stato inghiottito dal tubo catodico del televisore a sarei andato a fare compagnia a coma girl nel letto accanto, circondato dall’odore dolciastro dei disinfettanti. Avremmo finito i nostri giorni dialogando a suon di bip, ignari alle parole di circostanza sussurrate da qualche rompicazzo del caso al nostro capezzale.
Entro i miei venticinque anni questa psicodimensione era ormai perfettamente consolidata. Le immagini, la cocaina, le donne passavano forsennatamente attraverso il mio corpo, lo fottevano allo spasimo: ero come qualsiasi di quelle ragazza delle riviste porno che sembra vivano nell’incessante bisogno di essere trapanate in tutti i buchi da cazzi grandi come dei TIR. Donne che probabilmente vanno in giro con la fica in mostra per non perdere tempo. Io il tempo me lo prendevo dopo, ancora puzzavo di sesso ma era tempo di entrare nella pulsante dimensione in cui, con coma girl, mi raccordavo con l’universo. Un ruolo prima svolto dalle mie due dee che però ormai erano davvero troppo distanti e che forse nemmeno si cagavano più il fatto che esistessi. Coma girl in un certo senso era un profezia: un involucro apparentemente mosso da fenomeni meccanici in cui, flebile, soffiava ancora un misterioso alito di vento. Ciò mi dava l’illusione che anche attraverso le mie metalliche dinamiche ci fosse quello stesso alito. A questo punto sarebbe forse lecito sapere dove stavano Finn e Gerry: probabilmente dove li avevo lasciati. Dentro di me non c’era posto che per me e per coma girl. Loro continuavano nel percorso della vita. Io stavo lavorando alla costruzione del mio universo. Un universo vuoto, enorme, con al centro il letto di coma girl avvolto da una nube blu e accanto il mio letto pronto ad attendermi. All’esterno tutto un vorticare di vita esile e insulsa come quella di formiche che tanto si affannano per finire schiacciate da un piede. Nel mio caso era un intrecciarsi di fighe, droga e tette che mantenevo in piedi solo per impedire all’avvocato del cazzo, mio padre appunto, di rinchiudermi in un istituto psichiatrico. Era curioso che la mia “apparente normalità” per così dire mi salvasse dalla rete della psichiatria nella misura in cui ci avrebbe spedito di filato chiunque altro.
A ventisette anni mi sono laureato con una tesi sulle aziende produttrici di apparecchiature medicali per la vita artificiale, pagando così il mio tributo a coma girl.
Ennesima svolta, l’ultima, della mia vita. Entrai immediatamente a lavorare in un’agenzia di pubblicità all’interno della quale mi occupavo della comunicazione healthcare. Molto diverso quindi dal mondo che mi ero prefigurato tutto paillettes e jet set. Molto consono alla noia di cui sopra. D’altra parte come poteva essere diversamente con il bip di coma girl che pulsava ormai incessantemente all’altezza della mia carotide e che si intensificava non appena la cocaina raggiungeva con il suo gusto amarognolo quella regione del mio corpo.
La figa non mi interessava in pratica più, era una piacevole abitudine che sollazzavo talvolta senza neppure usare il cazzo, ridotto com’era ad un ammasso molle di terminali nervosi ipereccitati dalla polvere bianca. Il mio quotidiano sacrificio spermatico alla terra non era che un’elegia funebre alla sterilità.
Tutta la mia energia era ormai nel mondo mio e di coma girl.
Avevo scoperto in un attimo che anche gli dei invecchiano, nel senso che in un certo senso ne arrivano di nuovi e i vecchi non se li caga più nessuno. Ne’, come già detto, possono pretendere nulla dacché non è loro dato di chiedere. Tuttavia io non ero assolutamente pronto a perdere il mio regno del cazzo: semplicemente l’avevo trasportato all’interno delle sfera blu in cui vivevo con coma girl. E grazie al mio lavoro il mondo di coma girl si arricchiva di nuovi particolari, di nuovi macchinari. Coma girl era viva più che mai ora, e lo era grazie a me, alle tecnoalchimie che io inserivo nella sfera blu al cui interno ormai cominciavo anch’io a riposare la notte. Avevo trent’anni e le avevo dato molta più vita di quella che qualsiasi corpo umano avrebbe potuto reggere. Io stesso ormai ero parossisticamente cocainomane per tenerle dietro. E’ la prima volta che associo la parola cocainomane a me stesso.
Avevo scoperto in un attimo che anche gli dei invecchiano, nel senso che in un certo senso ne arrivano di nuovi e i vecchi non se li caga più nessuno. Ne’, come già detto, possono pretendere nulla dacché non è loro dato di chiedere. Tuttavia io non ero assolutamente pronto a perdere il mio regno del cazzo: semplicemente l’avevo trasportato all’interno delle sfera blu in cui vivevo con coma gir. E grazie al mio lavoro il mondo di coma girl si arricchiva di nuovi particolari, di nuovi macchinari. Coma girl era viva più che mai ora, e lo era grazie a me, alle tecnoalchimie che io inserivo nella sfera blu al cui interno ormai cominciavo anch’io a riposare la notte. Avevo trent’anni e le avevo dato molta più vita di quella che qualsiasi corpo umano avrebbe potuto reggere. Io stesso ormai ero parossisticamente cocainomane per tenerle dietro. Parossisticamente.

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