Sunday, January 29, 2006

L'INOPPORTUNITA' DI ASCOLTARE I DISCHI AL CONTRARIO

Avevo sei anni quando, alla televisione rimanevo incantato dal volo aereo. Rapito davanti allo schermo. L’immagine di grandi uccelli d’acciaio immacolato pronti a planare lungo corsie segnate da luminarie rosse e blu. Un sogno televisivo di quando la televisione restituiva agli uomini esperienze lontane e irraggiungibili. E anch’io sognavo nella remota speranza di compiere, un giorno, tale mirabile avventura. Mirabile quanto lontana. Poi l’adolescenza e il primo viaggio. Il fascino sussiegoso dell’aeroporto e, finalmente, l’ingresso in un enorme, rassicurante, utero d’acciaio. Il primo, glorioso, posto finestrino. Poi il decollo col cuore in gola e lo stomaco in mano per un’emozione. Difficile da contenere, sconveniente da mostrare. Altri voli. Ogni volta la stessa emozione stupita e orgasmica della prima volta. Oggi ho trentatre anni e prendo l’aereo quasi con la stessa frequenza con cui si prende l’autobus. L’emozione è paragonabile a quella che mi da un autobus: poco più di niente. Talvolta ai confini del fastidio. Il cielo è solo il cielo, le nuvole solo nuvole, il “mondo di sotto” e le piste illuminate muoiono nell’ordinaria quotidianità di un’agenda impiegatizia. Un film visto centinaia di volte che ora mi fa addormentare anche prima del decollo. Cado puntualmente in un sonno vuoto, privo di sogni interrotto solo da una voce che, all’atterraggio, mi dà il benvenuto in questa o quella città. Un sonno da cui mi risveglio ogni volta sempre più estraneo e straniero. Una cosa mi è rimasta di allora. Di quando ero bambino. L’ossessiva passione per i numeri. Conto tutto. I passi per arrivare al gate, gli scalini della scaletta, i codici del volo, l’ordinata fila dei posti a sedere, i passeggeri che scendono: di norma un aereo ne contiene 126. Prima scendono, prima si esce dall’aeroporto. Conto gli scalini delle scale mobili e amo molto quelle, infinite e ventose, di Londra. Quelle con le inserzioni pubblicitarie che scorrono come fotogrammi lungo i corrimano a ritmo di sei alla volta. Talvolta una compagnia di assicurazioni mi segnala che la cavalletta negli Stati Uniti è una pestilenza, in un altro posto è un animale domestico e in un altro ancora è un antipasto. E poi ci sono gli opposti: anche quelli mi attraggono. Con la stessa, semplice complessità dei numeri. Da una parte del mondo ci si da la mano e dall’altra è sconveniente. Il 13 qui porta fortuna e in America lo rifuggono come la peste e via di questo passo.
E poi i numeri che conciliano gli opposti: l’immobilità molecolare dello zero assoluto che (rispetto ai meno 273,15 gradi che rappresenta) è quasi un caldo torrido. La ghematrìa per cui la parola Raz (in ebraico segreto) ha lo stesso valore numerico, il 206, di Or (luce). Allo stesso modo Enach (uno) ha il valore di tredici (sfiga o fortuna) come le tribù d’Israele e come Ahava, amore.
Un’ordinaria paranoia che comincia la mattina con il conteggio dei passi. Continua durante il giorno nell’ostinata ricerca di un significato nei numeri telefonici. Sprofonda, di sera, negli abissi della coscienza. Arrivo a tentare, attraverso i numeri la conciliazione del bene e del male, di ricongiungere – comunque e sempre - nuovi opposti. D’altra parte come non considerare che il tradimento di Giuda è stato matematicamente funzionale alla gloria di Cristo. Da lì il nostro eterno barcollare tra l’obbligo di santità e il fascino di un peccato da redimere prontamente.
L’ossessione mi svuota, segreta come un’ordinaria e banale follia per straniarsi dal dolorante sacrificio di essere un uomo qualunque.
Un inferno paradisiaco, privato e numerico, in cui sprofondare nel sonno. Preludio di un giorno nuovo trascinato nell’odioso “azzurro America” del cielo vuoto, e pertanto privo di ogni simmetria che possa suscitare in me il benché minimo interesse. Oggi come ieri, oggi come domani, con l’ordinata banalità del susseguirsi dei giorni sul calendario. D’altra parte, si sa, sull’aereo le persone diventano tutte uguali: non esistono più cinesi e bianchi ma solo corpi occupanti posti corridoio o finestrino. In mezzo i paria, quelli che, come me, non sanno scegliere. Quelli che barcollano: né Giuda né Gesù. O, per meglio dire, quelli a cui non frega niente di niente. Solo alcuni dettagli non possono passare inosservati. Normalmente le file dei posti sono contrassegnati da numeri mentre, all’interno delle file, è l’alfabeto a scandire la disposizione delle sedute. Non qui. Non oggi. Le file sono a, b, c… ;a sinistra ci sono i posti tre, sei e nove mentre a destra i due e quattro. A me è assegnato un sei, da buon viaggiatore “di mezzo”.
Alla mia destra c’è il tre, sotto forma di donna, mentre alla mia sinistra il nove. Ha l’austerità composta e barbuta di un rabbino. Niente a che vedere con i manichini strozzati nelle loro cravatte dozzinali. Osservo, discretamente, ma con un desiderio inquieto di coglierne anche il minimo dettaglio. Miss Sei potrebbe essere mia madre: una madre “altra” e più vera di qualsiasi madre. Con i tratti duri e crudeli di quando, bambino, venivo sorpreso a leggere riviste pornografiche. Tratti che incorniciano uno sguardo liquido e vuoto come il più rassicurante degli approdi. Un abito nero come un’ombra dilatata all’infinito. In aperto e insanabile conflitto con il trucco pesante. Una vertigine di colori che ha perso irrimediabilmente ogni opportunità di armonia. Miss Sei è la madre: santa e puttana, così lontana dalla realtà che sconfigge ogni mio sforzo di composizione degli opposti. Rabbi nove no. E’ la simmetria del nero. Tutto e niente, rigido e ieratico come la morte. Un tempio in cui posso solo rinunciare ad ogni possibilità di fede o ragione. Decollo e mi addormento. Scelgo, ancora una volta, di non esserci. Ma il sonno mi ripropone la strana e inconciliabile asimmetria di Miss Sei e Rabbi Nove. Non è facile conciliare opposti che, a loro volta, racchiudono infiniti opposti. Nell’ipnosi del volo mi perdo per ritrovarmi in un vortice. Un fulmineo atto di straordinaria coscienza concilia l’inconciliabile. Tre, sei, nove: una ritmica scansione di numeri. Oscillante tra la santità del tre che imprigiona il demoniaco sei con la santità moltiplicata per se stessa e che, nel vortice, la annulla. Nove più tre dodici. Dodici diviso due sei. Il telefonino suona e non dovrebbe visto che ad alta quota non c’è campo. Il telefonino suona e non dovrebbe visto che è spento per non interferire con la strumentazione di bordo. Suona, rispondo e suona libero. E non dovrebbe visto che non sono stato io a chiamare. Un secondo di attesa febbrile. Preludio di una voce profonda e interiore quanto la mia anima. Pensi davvero che ci sia ancora qualcosa da sapere? Ho già fatto molto per te.
Tuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu.

Monday, January 23, 2006

LA SPIAGGIA DELL'APOCALISSE

La luce della fredda virtualità del computer. Una chat notturna. Una smorfia d’imbarazzo intercontinentale. Domani in Florida ci sarà uno dei più violenti uragani della storia e c’è Tom. Lontano come la luna, vicino come l’odore insostenibile di un corpo mangiato dalla paura di se. Il video mi restituisce la sua immagine spettrale per via della cam. Io ho solo voglia di distrarmi un po’. Bip. Quick message. Scusami se non ho voglia di scherzare ma sto aspettando che la mia casa venga distrutta. Forse anche la mia vita non sarà così forte da resistere. Goodbye. Chiudo il collegamento con Tom. Davanti a me una lista infinita di nomi che fa il giro del mondo e che elimino istantaneamente. Pochi secondi di azzurro radiante e mollo il colpo. Ora puoi spegnere il computer. Vado a letto con l’immagine di Tom che pian piano si dissolve nell’ansiolitico. Ancora una volta è mattina. Mi sveglio da un narcotico sonno e lentamente mi accorgo che ci sono. Tom non so. Cerco di parcheggiare la coscienza da qualche parte. In qualche modo trovo la via che da casa mi porta nel mondo, tra la gente. Pochi passi. Il rinnovo del quotidiano rituale dell’acquisto del giornale. Esiste la Cecenia ed è successo un gran casino. Dalla prima pagina la fotografia di un soccorritore che corre verso il nulla. In braccio un bambino che nella morte ha già trovato il suo nulla. L’uomo ha gli occhi puntati verso il cielo a cercare la risposta di un Dio che è più che mai silenzioso. La bocca, invece, è fissata su una smorfia che, nel congelato silenzio dell’immagine, irradia tutto il dolore del mondo, di un’umanità vigliacca e irragionevole. Non vado oltre. Non voglio sentir ragioni a cui non crederei. Ho il borghese fastidio di chi trova comodo nascondersi dietro un dito. Mi riesce male. Perché c’è un’altra storia. Una storia americana. Lei è nel giorno del suo compleanno e va dal parrucchiere. Sarà bellissima per il momento il cui il suo uomo tornerà. Manca poco. Calcola con ossessiva puntualità la resistenza della piega e della depilazione. In fondo si tratta di pochi giorni. Talmente pochi che possono essere scomposti in ore. La NBC trasmette le cronache dell’altro mondo. Quel mondo orientale dove il suo uomo sta combattendo una guerra. La solita guerra di cui fra qualche anno il nostro mondo cercherà, invano, un perché. Le ore si assottigliano e si rompono in un boato che, come una pietra caduta in acqua, irradia il mondo intero di un lugubre orrore. Quotidiano per tutti. Non per lei. Li c’è il suo uomo. Qui c’è la sua pelle liscia, bianca e calda che lo attende. Suona il telefono: è lui. E’ colpito. Forse tornerà un giorno. Il metallo conficcato nel basso ventre lo trasforma in un angelo involontario. Lei non sa se riuscirà… E lì, sola con il patetico orgoglio delle gambe depilate. Muta e immobile come un’icona pop. Simulacro delle migliaia di algide quanto inutili modelle che occhieggiano dai giornali. Si augura che il suo non compleanno da li in poi trovi vendicativa giustizia. E che anche il suo presidente a cui ha sacrificato peli e fidanzato possa vivere il peggiore dei suoi compleanni. Un’ora in più. La luce aumenta e il mio corpo nudo comincia a imperlarsi di sudore. Fa caldo nonostante un vento nucleare che non dà tregua. La luce. Sempre più livida. Talmente bianca da annientare ogni colore. Così calda da diventare quasi insopportabile. Friggo ma tengo duro. Il pensiero si offusca e approda nella chiara consapevolezza che questa sofferenza ultravioletta conferirà al mio corpo l’aspetto virile e salutare di una pelle abbronzata.

Thursday, January 19, 2006

SEQUESTRO

Intorno solo sbarre metalliche. Sei chiuso dentro da tanto di quel tempo che nemmeno sai quando sei entrato e perchè. E' come stare chiusi in una cabina telefonica. Manca il respiro. Fissi lo sguardo vitreo di una webcam a pochi centimetri. Anche il tuo sguardo è privo d'espressione. A stento si capisce se stai dormendo o se sei sveglio. Pensare? Meglio di no. Probabilmente non ne sei più capace. Mangiare. Quel poco che ti danno per tenerti in vita. E comunque anche la fame è ormai una sensazione dilatata. Poco più in la il tuo carceriere. Ti guarda distratto. Talvolta si avvicina. Sposta la webcam. Avvicina lo guardo per cogliere un cenno di vita. Silenzio. Poi accende la radio e una sigaretta. Si avvicina di nuovo e ti sbuffa il fumo addosso con noncuranza. Torna alla scrivania. Il suo viso si illlumina di una luce bluastra e sinistra. Quella del computer. Il rumore delle dita sulla tastiera è un frastuono nella testa. Tu non sai che la tua vita reclusa passa attraverso l'occhio della cam. Da li entra negli schermi di tutto il mondo. Che scherzi fa la vita. Tu sei li a soffocare costretto. Allo stesso tempo sei in migliaia di stanze da Roma a New York. Sotto costante osservazione. Probabilmente molti vorrebbero liberarti. Pochi verrebbero a farlo. Sarebbe facile. Basterebbe percorrere il lungo cavo telefonico che arriva alla tua stanza. Ma la libertà, come tutte le cose, ha un prezzo. Si chiama riscatto. E ha una data di scadenza. Lo sanno tutti tranne te. Per fortuna. Un prezzo astronomico. La libertà è preziosa e tu, che non ce l'hai, lo sai bene. Come lo sa bene il tuo aguzzino. Ha messo un timer. Quello che non sai è che stai correndo - senza alcuna possibilità di movimento - contro la morte. Accanto al timer, sullo schermo, cìè un totalizzatore. Il mondo di fuori deve sapere quanto deve pagare per te. E' il gioco del destino. A destra i minuti scendono, a sinistra il gruzzolo cresce. Lentamente. Sei solo al mondo. Non hai una famiglia che si sbatte a destra e a manca per salvarti. La tua vita è in mano a tiepidi gesti di buona volontà. E con la buona volontà non si va molto lontano. C'è chi si indigna. I giornali parlano di te. Mezza colonna in cornaca. Questo è quello che vali. Anche questo, però, non lo sai. A volte l'ignoranza aiuta a sopravvivere. Chissà se hai mai desiderato di farla finita. Non puoi farlo. Come potresti. Sotto stretta sorveglianza. Del tuo aguzzino. Della webcam. Del mondo che ti osserva. Mattina, pomeriggio e sera. Di nuovo mattina, pomeriggio e sera. Secondi che si susseguono in rapida sequenza. Attimi trascurabili di quotidianità per il mondo intero. Oscillazioni tra la tortura e la morte per te. Il tempo, in fondo, è così soggettivo... Il timer scandisce la sua corsa verso lo zero. La tensione diventa torrida. Il bottino sale. Prima lentamente. Poi accelera. Diventa frenetico. La mobilitazione diventa generale e mondiale. Trenta secondi, poi venti, poi dieci. Ci siamo. Il momento della verità. Il tuo carceriere stacca con un pacato clic del mouse il tuo unico e inconsapevole contatto col mondo. Sorride soddisfatto. Game over. Non posso dirti che succederà ora. Non posso più vederti. Forse sei morto. Forse sei ancora trafitto dalla tortura della reclusione. Per il mondo comunque non ci sei più. Non c'è e non ci sarà mai alcuna legge a difenderti. Non c'è e non ci sarà mai nessuna legge a punire il tuo aguzzino. Che orrenda maledizione nascere coniglio nel mondo degli uomini...

Wednesday, January 18, 2006

DICHIARAZIONE D'INTENTI

Normalmente non amo alcun tipo di autorefererenzialità. Mi annoiano quelli che vivono il blog come estensione - spesso psicotica - del proprio ego. L'idea originaria era quella di uno spazio vuoto. Piuttosto che entrare nella vita degli altri col mio vissuto privato e banale preferivo il percorso inverso. Lanciare anonime ipotesi sospese e attendere che venissero raccolte, che qualcuno entrasse nello spazio tra un pensiero e l'altro. Liberamente e senza alcun controllo. Mi è stato però segnalato che una stanza vuota, spesso, è destinata a restare tale. O- peggio - rischia di riempirsi di sterili monologhi. Non è ciò che voglio. Radio Sarajevo nasce come spazio di connessione. Di conseguenza ho deciso di identificarmi. La mia idea originaria non verrà snaturata. Racconterò di me in maniera sporadica e frammentaria. Come e quando ne avrò voglia, evitando comunque piatti resoconti di quotidianità. Anzi me li sfango subito dicendo che, come tutti, mi alzo alla mattina, lavoro tutto il giorno e la notte vado a dormire. Condividerò quindi altri fronti: emozioni e intuizuoni, visioni e opinioni, forse brevi dissertazioni. Con la promessa che qualsiasi argomento verrà classificato secondo una "scala d'interesse" da uno a dieci: solo ciò che varcherà la soglia del sei verrà riportato. Una scala sicuramente arbitraria, visto che comunque sono io a decidere il tutto. Ma in ultima analisi, se così non fosse, tanto varrebbe cancellare tutto e limitarmi a leggere ciò che scrivono gli altri. Racconterò storie, talvolta commenterò fatti, spesso condividerò gusti musicali, letterari o cinematografici. Allo stesso tempo accoglierò alcune volte in silenzio, altre volte a voce alta gli interventi di tutti coloro che vorranno partecipare a questo mio progetto.Termino con un paio di ringraziamenti. Il primo va a Vikingur, il mio amico fraterno che prima e meglio di me ha intrapreso questo percorso. Radio Sarajevo nasce dall'abitudine di commentare i suoi post. Un'abitudine che ha originato il desiderio di creare il mio blog.Il secondo va ad Agostino Bianchi, l'autore della fotografia pubblicata, l'amico che ha saputo cogliere e rappresentare le luci e le ombre della mia personalità molto meglio di quanto io potrò mai fare.

Sunday, January 15, 2006

IL GIORNO DELL'INDIPENDENZA

Tra il dire e il fare c'è la linea retta dell'indifferenza. Ci si penserà domani e intanto ci dormiamo sopra perchè la notte porta consiglio. Il consiglio non arriva e non ci si pensa più. Si comincia a non pensare più. Bisogna stare attenti. A pensare troppo, è inevitabile, si potrebbe stare un po' male.

Decidiamo di stare un po' male.
Decidiamo di liberare la potenza creativa di chi sceglie in prima persona. Saremo diversi ogni giorno e coerenti per una vita intera.
Sarà un tuffo nel vuoto e la vertigine potrà darci un po' di nausea.
Ci salverà la consapevolezza che anche una goccia nell'oceano può imparare a nuotare.