Thursday, September 13, 2007

STROBO - epilogo

BUONANOTTE, SUONATORI.

Vi chiedo scusa, ma non voglio alcuna redenzione. Perché ho solo vissuto di vite sognate. Le vostre. L’ho detto e lo ripeto. Qui ci siete tutti. Sono Troy, sono Finn, sono Gerry e sono te con tutte le mille possibilità di identità banali che solo voi uomini riuscite a indossare e buttare via come vestiti fuori moda e fuori misura. Vi ho presi e ci siete tutti, ma nessuno di voi, come me, ne è uscito vivo. Sono rimasto sospeso sul tetto dei ricordi, ho assaporato il sapore inebriante del progressivo allontanamento della realtà. Sospeso e sorretto dalle impalpabili molecole di quelle piccole bugie che voi vi ostinate a chiamare vita. Restando giusto il tempo necessario a trovare l’energia per tuffarmi senza ritorno nel buco nero che libera il mondo dall’ingombrante e inutile presenza degli uomini.

STROBO - capitolo 5

LUI NON E' PIU' QUI

Era ancora mattina quando il medico e i suoi genitori entrarono nell’appartamento. Da tre settimane era isolato. Non rispondeva più al telefono. Probabilmente aveva interrotto la terapia. Non che non fosse già successo. Ma mai, mai era stato così tanto tempo senza dare un segnale di sè. Per entrare avevano dovuto forzare la serratura, e poi farsi faticosamente strada attraverso un silenzioso e sommesso caos. Una sorta di trincea postatomica che lui aveva interposto fra sè e il mondo di fuori.

Non è stato facile avventurarsi in quel labirinto di pezzi di vita abbandonati. Accanto al tavolo una sedia appena spostata. Sul tavolo un piatto con resti di cocaina e una cannuccia con la punta macchiata di sangue. E poi carta. Tanta carta. Carta geografica. La mappa dell’Irlanda, la pianta della metropolitana di Londra e quella di Milano. Un elenco del telefono, costellato da mille segnalibri e per ogni pagina alcuni nomi evidenziati: Finnegan O’Brien, Giorgio Greco e molti altri. Accanto, paccottiglia di varia natura. Santini indiani, tarocchi e riviste. Tante riviste e riviste di ogni tipo. Moda e bellezza, maschile e femminile. Piccoli fascicoli di assurde lettere a carattere pornografico. Carte da gioco, fiches e quel vecchio mazzo da scala quaranta con cui, da bambino, era solito trascorrere le torride serate estive.

Silenzio. Nessuno osava proferire parola. Solo la madre lasciava che il vuoto fosse rotto da brevi e ritmati singhiozzii che tuttavia non trovavano mai sfogo in un pianto vero e proprio. Pagine strappate. Sparse sul pavimento. Fotografie di moda. Poi pagine bianche e ancora pagine disegnate. Immagini di creature in pieno conflitto con la propria natura. Abbigliate come drag queen. Talvolta ridotte a dettagli di organi genitali. Ma molto più spesso si trattava di tratti rabbiosi. Volute nere che correvano fuori dai fogli per perdersi sui muri utilizzati come precari cavalletti da disegno. Nell’angolo una piccolo fagotto di cuscini, probabilmente segno di un improvvisato giaciglio, e accanto un lettore di CD con alcuni dischi abbandonati. Un odore forte, di materiale plastico carbonizzato. Sul piano della cucina il piccolo televisore. Acceso. Con l’audio disattivato e i colori esasperati a tal punto da non permettere di decifrare le immagini. Una tavolozza psichedelica in continuo mutamento.
Accanto c’era una porta, e c’era voluto un po’ di tempo per aprirla. Perché era chiusa a chiave dall’interno. Perché la sua superficie celava altri indizi. Lettere fittissime e ondeggianti come formiche impazzite. “Sono stato, o meglio ho cercato di essere, il meglio di quello che volevate vedere da me, il Dio che la vostra America ha sempre cercato”. “Non è certo il fatto di essere nato che ti rende diverso dagli altri, ma sono gli altri a renderti diverso.” Parole al vento, sciarade la cui profondità probabilmente era l’orizzonte desolato di un deserto. Il deserto della mente.

Era singolare che, nonostante il disordine, fossero tanto tangibili le sensazioni di un luogo che aveva da tempo immemore perso ogni traccia di umanità. I genitori, riscontrando che la porta di accesso alle altre stanze era chiusa a chiave decisero che era il caso di chiamare le forze dell’ordine. Che, naturalmente, non arrivarono subito. Ci misero quasi un’ora. Un’interminabile ora. Forse potevano decidere, come per la porta d’ingresso, di forzare la serratura. Probabilmente li frenò la paura del peggio. Come se ci potesse essere qualcosa di peggiore rispetto all’inquietante caleidoscopio di segnali e sensazioni che riempivano come gas l’aria dell’abitazione. Restarono li. Sospesi a vagare nel vano tentativo di risolvere un’equazione a mille incognite. In silenzio. Un silenzio rotto dal roboante ingresso dei carabinieri che, prima di attivarsi per aprire la nuova porta del labirinto, diedero inizio a un interrogatorio serrato e, tutto sommato, inutile. Tutto ciò che vi era da sapere era sotto gli occhi di tutti. E quello che c’era da vedere probabilmente non significava assolutamente nulla. Era semplicemente una stanza affondata nel buio, come una capsula spaziale che ha perso la rotta e che vaga nello spazio alla ricerca di un punto di riferimento nel vuoto infinito.

Vicino alla toppa della porta c'era una serie di accenti a spirale che, come un gorgo d’acqua nera, si tuffavano nel nulla.

Non fu complicato: la porta si aprì alla prima spallata. Ma nel minuscolo ingresso completamente buio c’erano altre porte tutte chiuse a chiave tranne una. Quella del ripostiglio. Disordinato come ogni ripostiglio e con una piccola finestrella spalancata che lasciava entrare brevi raggi di luce. L’unico varco aperto. Quello della fuga. Pertanto, di nessuna importanza. Almeno per gli improvvisati e ignari inquisitori. Un‘altra spallata. Sulla sinistra si aprì la porta su un bagno cieco. Cieco e maleodorante. Fu difficile farsi strada fra le montagne di vestiti abbandonati come resti di un fiume in piena. Sua madre non ebbe il coraggio di entrare. Soprattutto per via di un’immagine che, con la luce diretta delle lampadine che incoronavano lo specchio risultava perlomeno inquietante. Si poteva definire un viso. Più che un viso, il trucco di un viso direttamente applicato sullo specchio. Rossetto, eyeliner, ombretto e fard. Un trucco esagerato che deformava in modo ridicolo il riflesso di chiunque vi si ponesse di fronte. Superfluo precisare quanto fosse grottesca la faccia baffuta con mascella possente del carabiniere che per primo si trovò ad indossare la maschera. In altre circostanze tutto ciò sarebbe stato percepito come opera di un artista geniale. Purtroppo le circostanze riducevano tutto ciò all’ennesimo e indecifrabile tassello di un puzzle senza fine. Sotto lo specchio, nella vasca del lavandino, una quantità di cosmetici degni di una cocotte. Sulle pareti trasparenti del box della doccia, davanti allo specchio, la ripetizione ossessiva della frase “sono stato, o meglio ho cercato di essere, il meglio di quello che volevate vedere da me”. Tracciata con il rossetto utilizzato come fosse coagulo di sangue sintetico.
Abbandonate sul piatto, decine di scatole di ansiolitici vuote. E poi spazzolini da denti, pennelli da make-up, biancheria sporca e sporcata. Sulle piastrelle nuove parole. Parole di pece nera. Parole che scendevano dagli occhi come eyeliner sbavato da improvvisa lacrimazione. “E’ preferibile continuare a portare dentro di se ciò che è stato, pensare che non è mai cambiato e che forse non cambierà mai, perché è preferibile continuare a portare dentro di se ciò che è stato, pensare che non è mai cambiato e che forse non cambierà mai, perché è preferibile…”. Una nevrotica filastrocca senza fine che scorreva come un disco inceppato lungo l’intera superficie della parete. Interrotta, anzi sfumata, verso l’alto, dove ragionevolmente la mano non riusciva ad arrivare. Li, in quel punto, le parole si scioglievano, si dilatavano e dilagavano verso il basso come le ali di un Icaro che si è avvicinato troppo al sole. Tutto ciò poteva essere condensato in confusione mentale, paranoia o qualsiasi altro termine indicante una patologia psichiatrica. Ma questa soluzione, facile quanto immediata, era nota a tutti. L’aspetto più sfuggente era proprio quella sostanziale assenza di segni concreti di vita. L’assenza di un corpo, anche morto, che in qualche modo potesse fare da sintesi e terminare l’infinito gioco di scatole cinesi. Un qualcosa che fosse risposta a quei punti interrogativi appesi come ghirlande abbandonate dopo una festa finita. Ma la risposta non c’era. Non c’erano neppure le domande, a cui i carabinieri sono ben abituati. E’ parte del loro mestiere fare domande. Non era possibile. O perlomeno non era ancora possibile. Le uniche domande possibili erano quelle la cui risposta era ovvia e palese. Il ragazzo aveva una certa disinvoltura nell’uso di psicofarmaci? Certo che si, e lo diceva spudoratamente lasciando in giro una quantità di blister vuoti degna dell’ospedale maggiore. Non era certo il solo. Diverso è capire se questo uso e abuso significasse qualcosa. Non appena il pensiero cercava di oltrepassare la concretezza dell’apparenza si perdeva irrimediabilmente nel buio più nero.
Tanto valeva calare il sipario. Cercare altrove. Spegnere la luce e chiudere la porta. L’ultima porta da aprire apparentemente era la più impenetrabile. Forse perché oltre c’era davvero il bandolo della matassa. Forse perché era l’ultima. Aldilà di essa tutto o niente. Ed è proprio questo che venne rinvenuto. Tutto e niente. Accanto alla porta una cordigliera di vestiti in ordine sparso. Femminili e maschili, sporchi e puliti, ammonticchiati lungo il muro fino a fare da fermaporta all’anta dell’armadio aperta. Un armadio perfetto. Con decine di giacche nere ossessivamente ordinate come soldatini in fila seguite da un pari numero di pantaloni neri. Sui ripiani almeno una quindicina di scarpe classiche di cuoio nero sovrastate da almeno una cinquantina di camicie bianche perfettamente piegate e disposte in scala in modo da preservarne la forma del collo. Il tifone di follia sembrava aver risparmiato questo angolo. Più verosimilmente l’ossessione aveva invertito il senso. Per poi ritornare alla coerenza con le stanze precedenti. Sulle ante degli armadi erano appuntati fogli densi di parole. Parole che sfuggivano alla costrizione della carta per dilagare sulla lacca bianca del mobile. “Chi non vuole essere di questo mondo in questo mondo non ha spazio. E non ha più tempo”. E poi ancora. “Dentro di me scorre sangue caldo come la terra che mi ha originato, pertanto io non devo essere debole. Io sono capace di cogliere milioni di sfumature: vivo di minime sensazioni. Allora perché il mio corpo ha cominciato a tradirmi e a porre un velo oscuro fra me e la realtà?” . Una lento fluire di parole. Parole di cui, ancora una volta, era difficile afferrare il senso. Un vertiginoso labirinto da cui tutti i presenti ormai non vedevano l’ora di uscire. Perché ormai era chiaro. Nell’appartamento c’era tutto ciò che nessuno avrebbe mai voluto trovare e non c’era più lui. C’erano tracce, forse indizi, come tutti quei vestiti che in perfetta simmetria ripetevano la catena montagnosa dall’altra parte del letto. C’era un letto nudo e privo di lenzuola. C’era un laptop sul comodino. E un plico di fogli tenuti insieme da un elastico. Sul primo foglio, allineate ad epigrafe, ancora parole.
“Il serpente con ali d’angelo”
“Toxic angel”
“Il sogno del crotalo”
“Cuore serpente”
“Tenero come il cuore del crotalo”
Ogni riga era stata cancellata da uno spesso tratto nero.
Tranne l’ultima.
Il plico rimase li. Abbandonato come un ricordo tra ricordi. Tutti comunque da dimenticare al più presto.
E così fu.
Senza un rumore. Senza una parola in pochi minuti tutti i presenti abbandonarono la casa. Esattamente nello stato in cui era stata trovata. Chiusero la porta e scesero le scale frettolosamente. Per affrancarsi definitivamente da una situazione tanto fastidiosa quanto imbarazzante. Per settimane l’appartamento rimase chiuso. Poi apparve un esercito di sgomberatori che eliminò ogni traccia, compreso quel plico di fogli. Disperso e distrutto come la chiave di un mistero ormai privo di ogni interesse. Perchè se anche i misteri hanno una vita, questa era irrimediabilmente giunta alla fine.