Wednesday, June 28, 2006

LE SCAPOLE ALATE DI FINN - capitolo 4

LA TERAPIA DEL DOLORE

Come ho già detto, anch’io come tutti i ragazzi salubremente disturbati della mia età, non sono sfuggito alle spire della psicanalisi. Il perché a un certo punto della mia vita io mi fossi trovato seduto su una poltrona a sostenere lo sguardo di un uomo che mi guardava fisso negli occhi francamente non ha ancora trovato una risposta plausibile. Forse era perché la mia vita famigliare non era tra la più regolari. Forse era perché la mia riservatezza era eccessiva rispetto alla spensieratezza che, erroneamente, viene legata all’età dell’adolescenza. Molto probabilmente era perché allora tutti i ragazzi appartenenti alla classe media ci dovevano andare. Un po’ come a scuola. Un’interrogazione a cadenza settimanale che, regolarmente, mi lasciava esausto. La psicanalisi, come tutti sanno, parte da un problema o da qualcosa comunque supposto tale. L’unico "non problema" che io potessi ritenere plausibile era il mio mondo in bianco e nero. La psicanalisi non l’ha risolto. Spesso poi si parte dai sogni. Io, da sempre non sogno e se lo faccio non ricordo nulla. Tuttavia pur di evitarmi lo strazio di sentirmi dire che la presunta assenza di attività onirica nasceva da un meccanismo di rimozione, mi impegnavo con ostinata determinazione a inventare ogni settimana qualcosa che accadesse nella mia testa durante la notte. Qualcosa da raccontare per fare passare lisci quei faticosi quarantacinque minuti della seduta. Il tutto per arrivare a trovare conclusioni logiche rispetto ai miei presunti problemi. Problemi che affondavano sempre in complessi di Edipo non risolti, omosessualità latente e così via. Problemi campati in aria in quanto nati da uno sterile esercizio di fantasia. Era come se limitarsi a vivere la vita per quello che era non bastasse. La cosa che proprio non mi andava era questo mettermi in pasto a uno sconosciuto che filosofeggiava sui miei sentimenti e le mie fragilità, probabilmente del tutto consone al periodo della vita che stavo vivendo. Certe cose per me nascono private e devono rimanere tali. Se ho voglia di condividerle le faccio con gli amici, eventualmente con mia madre, ma sicuramente non con uno sconosciuto che con un occhio le viviseziona mentre con l’altro controlla l’orologio e allo scadere del quarantacinquesimo minuto mi restituisce il fardello e mi dà appuntamento per la settimana successiva. Nella costante ricerca di un obiettivo finale non meglio identificato e pertanto mai raggiunto. Nella mia mente mi era assolutamente chiaro chi fossi e perché mi comportassi in un determinato modo. Non che fossi equilibrato. Ad esempio ero assolutamente conscio dei miei problemi con le ragazze ma, di fatto, il sapere che alla base vi fosse omosessualità latente o ansia di possesso non mi aiutava granché. Ero solo un ragazzo che pretendeva di vivere. Facendomi le domande opportune al momento giusto, in modo lineare e senza forzature. Anche Troy andava da un analista, e nel suo caso ogni seduta sembrava consolidare il suo distacco dalla realtà, andando a legittimare i tratti più schizoidi e maniacali della sua personalità. Talvolta creando in lui una tale immedesimazione nel ruolo dell’analista da portarlo ad essere terribilmente insopportabile nel tentativo di interpretare ogni mio comportamento secondo i suoi personalissimi parametri di valutazione. Passai intere notti a sentirlo pontificare sul fatto che Gerry non fosse più uno di noi, per il fatto che era omosessuale. Lunghi discorsi per dimostrare che la sua diversità era la base di un’incompatibilità incolmabile. Senza possibilità di appello perché, molto spesso, certe analisi nel loro relativizzare ogni cosa arrivano a fissare un assoluto più duro della pietra. Come ho già detto era tutto da dimostrare che Gerry fosse gay e ancora oggi non penso che fosse più diverso di noi, nella misura in cui l’identificazione non può che passare attraverso un percorso di indeterminazioni. Se Gerry era omosessuale, con tutta probabilità lo eravamo pure io e Troy, non fosse altro per quell’ansia di sperimentazione erotica che noi, come tutti, abbiamo vissuto.
In ogni caso per ben quattro anni, ogni giovedì alle diciotto in punto mi attendeva la conversazione privata con me stesso. Ricordo i primi imbarazzi: gli analisti sono spesso congelati in un silenzio di attesa, rigidi in uno sguardo interrogativo in cui è difficile scorgere la domanda. Inizialmente le sedute scorrevano attraverso un vuoto che non osavo - o forse non volevo - assolutamente rompere. Dopo poche settimane cominciò a farsi strada qualche timido cenno di colloquio. Stravaganti monologhi in cui cercavo di accondiscendere le ansie del dottore nella speranza che prima o poi tutto giungesse a conclusione. E quindi cominciavo inventando problemi che non sapevo di avere, sogni che non sognavo e così via. Tentando di trovare sempre una chiave di lettura che mi portasse a una soluzione e a stupirmi di quanto fosse efficace la terapia. Un gioco estenuante per me che non avevo neppure quindici anni e mi trovavo a gestire la “settimana enigmistica del mio presunto inconscio”.
Il teatrino era sempre popolato dalle stesse persone: io, spesso Troy, un po’ meno spesso mia madre (non mi andava proprio di giocherellare con quanto di più prezioso avevo), raramente Gerry.
Ogni tanto avevo l’impressione che il mio dottore (lo chiamo così perché non sono mai riuscito, come si conviene, a identificare nel mio analista una sorta di alter ego) fingesse di ascoltarmi. In realtà probabilmente dietro quell’espressione così misuratamente attenta lui pensava alla lista della spesa, cercava di ricordare il testo di una canzone e, per farla breve, a tutte quelle cose che normalmente si usano per ammazzare il tempo e tener lontana la noia. Solo quando il discorso scivolava nel sesso il sopracciglio si alzava e lo sguardo si faceva attento e preoccupato. Gli analisti con sesso e sogni ci vanno a nozze. E quindi di li a poco il timido Finn sarebbe diventato un abile pornografo. Raccontavo di prodezze erotiche al limite del verosimile, talvolta prendendo spunto dalle riviste pornografiche di Troy laddove la mia fantasia in bianco e nero proprio non riusciva ad arrivare. Il mio confessore restava li, impassibile ma moderatamente avido di dettagli sempre più scabrosi a cui peraltro si guardava bene di fornire una qualsiasi spiegazione. Dovevo arrivarci da solo. In pratica la regola del gioco prevedeva che a ogni quesito io dovessi pure essere in grado di dare una risposta. Ed era paradossale che dovessi pagare per tutto ciò. Non solo denaro. Quella in fondo era una scelta di mia madre e, per quanto scellerata, la ritenevo un gesto di attenzione e di amore. Pagavo di mio. Se era estenuante la ricerca di nuovi dettagli da raccontare come la fiaba della buonanotte, era ancora più difficile, una volta che la porta dello studio si chiudeva dietro le mie spalle, fare piazza pulita di tutto e ritornare a essere me stesso. Talvolta nella mia mente si affacciava il dubbio che in realtà ciò che raccontavo fosse veramente una parte di me che affiorava dalle tenebre del mio inconscio. Ci voleva tempo per tornare alla consapevolezza della finzione. Per farlo avevo bisogno di sensazioni forti che mi costringessero ad atterrare nel mondo degli uomini. Sensazioni che, vivendo in un grande città, trovavo facilmente nella semplice osservazione della realtà. Talvolta si trattava di un bambino che chiedeva l’elemosina sul ciglio della strada a piedi nudi in pieno inverno, altre volte era una prostituta troppo giovane costretta ad essere l’agnello sacrificale di qualche signore perbene. Persone negate. Gente che non aveva scelto la propria vita e che probabilmente se mai avessero avuto un futuro sarebbe stata una strada senza uscita. Irrimediabilmente scoppiavo a piangere. Un pianto sommesso, come le lacrime di mia madre, disperato e, allo stesso tempo, catartico. Un ritorno alla mia natura emotiva. Un pieno contatto con la mia pietosa umanità. Il riconoscimento di un valore che nessuna terapia avrebbe mai potuto sradicare.
Non fu così per Troy. L’analisi consolidava seduta dopo seduta il suo patetico senso di superiorità. Strutturava giorno dopo giorno quell’atteggiamento di messia del nulla che, successivamente, lo avrebbe condotto all’autodistruzione. Per lui ogni cosa aveva un senso più profondo ed esoterico. La droga, che per tutti noi era una semplice - seppur non troppo innocente - trasgressione, per lui diventava espansione di una coscienza che peraltro non possedeva. Mentre io mi aggrappavo ostinatamente alle disgrazie umane per rimanere me stesso, Troy diventava quell’odioso superuomo destinato ben presto ad essere sbalzato ai margini della realtà. Ampliando considerevolmente il diametro di quel buco nero che era la sua anima. La vita, nel frattempo, scivolava sotto le suole delle sua scarpe firmate.
La sua analista era una donna. Lui la venerava come una dea. Forse perché, per la prima volta, aveva la sensazione che ci fosse qualcuno che realmente si occupasse di lui. Forse perché quella presenza femminile andava a colmare quel vuoto abissale di ragazzo abbandonato da quanto di più caro avesse: sua madre e sua sorella. Il mio vuoto, al contrario, era uno scrigno chiuso. Un rifugio prezioso per le mie emozioni che non necessitavano di alcuna interpretazione. La vita sognata, quella che si dipanava nelle stanze ovattate dell’analisi non era la mia. La vita io la osservavo per la strada, in tutta la sua dolente crudezza. Quella crudezza così lontana dall’onnipotenza borghese di cui la psicanalisi sembrava essere la più efficace rappresentazione.
D’altra parte io portavo dentro le asperità di una terra che si nutre del sangue degli uomini e a cui gli uomini donano il sangue ballandoci sopra. Una terra popolata da uomini che non hanno tempo per le fascinazioni salottiere e quel poco tempo che hanno è scandito dal tintinnare dei boccali sciabordanti di birra nera e densa come il petrolio.
All’inizio ho provato a spiegarlo al dottore. Ho provato anche a fargli capire che la mia vista in bianco e nero non era un trauma ma un dono di Dio, un sesto senso che mi permetteva di decifrare le infinite sfumature che ai più sfuggono. Un sesto senso che anche nel nero più nero mi costringeva a trovare la strada dell’intuizione. Niente. Se non c’era un sogno da raccontare o qualcosa di attinente al sesso non si andava avanti. Dopo quattro lunghi e faticosissimi anni tutto questo arrivò alla parola fine. Ufficialmente perché il percorso aveva raggiunto il suo (in)naturale compimento. In realtà perché quel percorso non portava da nessuna parte e probabilmente il dottore cominciava a sentirsi davvero troppo disonesto per continuare a farsi pagare un ascolto distratto di stupide storielle erotiche. Se ripenso a quel periodo un brivido gelido mi percorre la schiena ancora oggi. Mi chiedo infatti come abbia potuto sopravvivere a tutte le tempeste emotive a cui venivo sottoposto. E non essendo mai stato un eroe tendo a pensare che, in qualche modo, sia stata una fortuita casualità. Alle torture a cui il “dottore” mi sottoponeva a cadenza settimanale andavano infatti aggiunte tutte le cosiddette terapie alternative a cui, di botta o di rimbalzo, venivo esposto. D’altra parte mia madre non era immune dal fascino della cosiddetta “new age”. Non si rendeva conto che la sua ansia di preservarmi dai mali del mondo mi rendeva una sorta di cavia di laboratorio. Nella gran parte dei casi si trattava di cose del tutto innocue e inutili che passavano sotto il nome di fiori di Bach o massaggi di varia provenienza orientale. In altri momenti, seppur meno frequenti, la faccenda si faceva decisamente più pesante. Dalla meditazione trascendentale al rebirthing e, soprattutto, all’ipnosi regressiva. Premetto che, essendo già sufficientemente dura la vita attuale non mi sono mai curato più di tanto di quelle precedenti o future. Con questo non voglio ammetterne ne negarne l’esistenza. Da sempre credo che si debba vivere nel momento e per quello che si è. Se ci fosse dato di sapere cosa c’era prima o cosa ci sarà dopo dovrebbe essere una consapevolezza spontanea e naturale. Visto che non è così, non credo sia il caso di scomodare morti o stregoni per indagare qualcosa che in ogni caso non muoverebbe di un solo millimetro ciò che in realtà siamo.
Comunque, fui sottoposto a ipnosi regressiva. Questa volta il dottore non si è limitato ad affondare le mani nel ventre della mia anima, è andato direttamente a frugare nel mio dna alla ricerca dei fossili del mio passato remoto.
Normalmente queste indagini originano ipotesi decisamente suggestive: spesso si tratta di re o di cortigiane, cavalieri o artisti maledetti, raramente di gente comune. Nel mio caso l’ignoto superò ogni più rosea aspettativa. Prima di nascere, per il mondo degli uomini non esistevo. E fin qui si rasenta la banalità. Il fatto è che non esistevo come essere umano. Ero una creatura spirituale. Un angelo. Un ipotesi peraltro che trovava piena conferma negli angeli decadenti in bianco e nero celebrati da Wim Wenders nel suo cielo berlinese. Un’ipotesi sconcertante, disarmante nella sua improbabilità. Frutto di uno stravagante destino che da una parte costruiva – per poi distruggere - quel dio carnale e plastificato chiamato Troy, mentre dall’altra tentava di spogliare me della natura umana per trasformarmi in angelo caduto. Io non volevo essere un ex-angelo né mi faceva bene che qualcuno come mia madre mi ritenesse tale. Non volevo diventare un oggetto di culto o dotarmi di qualsiasi dono che mi allontanasse dalla natura a cui disperatamente cercavo di rimanere aggrappato. Gli oggetti di culto sono infatti venerati per ciò che rappresentano nel loro essere appartenenti a un piano superiore, nella loro distanza. Al contrario, io, avevo solo bisogno di essere amato. Perché io avevo solo bisogno di amare.

Sunday, June 11, 2006

LE SCAPOLE ALATE DI FINN - capitolo 3

ACCESSO NEGATO

Al funerale di Troy, Gerry non è venuto. Anche Gerry, come Troy e, devo dire suo malgrado, è stato un protagonista della mia adolescenza. Allora Gerry portava costantemente un paio di occhiali spessi e azzurrati. Aveva una strana malattia, a causa della quale la sua vista era come il riflesso della realtà in uno specchio frantumato. Doveva girare la testa molto lentamente in quanto la sua iride non gli permetteva la normale fluidità del movimento oculare. Come una videocassetta usurata, la vista di Gerry era una rapida sequenza di fotogrammi. Tutto ciò faceva di lui un personaggio alquanto singolare. Misterioso nel suo muoversi lentamente, un passo dopo l’altro senza potersi permettere scossoni di alcun tipo. Quasi avesse paura di spostare l’aria. Leggermente femmineo nel suo dondolare, suo malgrado, in questa costrizione alla lentezza. Ma anche solenne e ieratico in questo incedere passo dopo passo e osservando con estrema attenzione ogni passo. Secondo il personalissimo giudizio di Troy, Gerry era una persona decisamente fragile. Non aveva alcuna importanza dal momento che per Troy tutto ciò che era al di fuori di sé era debole e instabile. D’altra parte erano davvero poche le cose degne di importanza che riguardavano il frivolo Troy. Io semplicemente trovavo la lentezza di Gerry perfettamente complementare alla mia pacata introversione. Io, però, non ero così inaccessibile. Gerry era un segreto. Nessuno sapeva nulla di lui né della sua famiglia. Nessuno sapeva dove vivesse, né lui ne parlava. Nelle fredde sere d’inverno lo si vedeva scomparire dinoccolato nella notte e ogni volta mi salutava come se fosse un addio. Misterioso ed enigmatico dietro quel suo sguardo fisso. Anche il suo modo di vestire era del tutto singolare. Quando si è adolescenti ci si dà un gran da fare per studiare ogni minimo dettaglio del proprio aspetto. Significa appartenere a un gruppo, identificarsi da una parte o dall’altra. Gerry era nel mezzo. Un funambolo barcollante sulla linea di confine tra la banalità e la stravaganza. Così come la sua vista, anche il suo aspetto era fatto di un agglomerato di dettagli fuori da ogni logica. O, molto più probabilmente, sfuggente alla logica comune. Per lui non esisteva inverno e estate. Si abbigliava come capitava, seguendo solo il suo istinto e superando ogni confine tra il buono e il cattivo gusto. Io provavo una certa tenerezza per questa sua diversità, forse perché in essa riconoscevo la mia. La differenza è che mentre io ero rigidamente trincerato dietro la coerenza della mia introversione, Gerry era in aperto conflitto con se stesso. Come se dovesse compensare nel comportamento la limitazione e la lentezza dei suoi movimenti. In pochi minuti passava da uno stato di calma pacata e quasi sonnolenta a momenti di aggressività incontrollabile. Perfino la voce passava da toni bassi e diaframmatici ad acuti che vibravano in testa come l’allarme di un auto impazzito in piena notte.
Questa stravaganza di comportamento non permetteva a Gerry di avere una vita sociale, per così dire, equilibrata. Conosceva tutti e da tutti era conosciuto. Tuttavia non aveva persone che potesse, a parte me e Troy, considerare amici. Questa sua peculiarità di comportamento faceva di Gerry un soggetto estremamente individualista. E pertanto solo. Era semplicemente rispettato, talvolta tollerato: niente di più. Non era infatti semplice sottostare alle sue intemperanze. Gli adolescenti spesso hanno bisogno di confrontarsi con persone che, in qualche modo, tengano sotto controllo un certo grado di instabilità fisiologico per la loro età. Gerry che di queste instabilità ne era amplificatore veniva tenuto a debita distanza. Io non ho mai capito se questa condizione in qualche modo lo frustrasse, o se, al contrario, lo confermasse – seppur in misura decisamente meno paranoica rispetto a Troy - nella sua identità e fierezza di essere differente. In ogni caso c’era un mondo segreto, quello in cui spariva ogni sera, che interrompeva ad un certo punto l’accesso alla sua personalità.
D’altra parte, alcuni tratti del suo carattere erano davvero insopportabili. D’altra parte il livello di sopportazione e di comprensione degli adolescenti giunge al limite ultimo molto velocemente. Anche i rapporti con le ragazze seguivano una logica del tutto singolare. Gerry in fondo amava solo l’idea di avere qualcuno accanto a se. Chiunque fosse. Per cui capitava che, molto democraticamente, si avvicinasse con il cuore invasato di sentimento e desiderio a moltissime ragazze. Non necessariamente belle, non necessariamente intelligenti. Collezionava molti rifiuti ma alla fine trovava qualcuna che corrispondesse la sua incontenibile necessità di essere amato. Da quel momento il tutto sprofondava in un buco nero, in quell’enorme mistero che era la vita privata di Gerry. Naturalmente, come per tutti noi, anche per lui gli amori erano rapidi, ma nessun dettaglio, nessun resoconto veniva condiviso. Né da parte sua, né da parte delle sue partner.
La dimensione privata prendeva il sopravvento su tutto.
Naturalmente anche questo veniva colto da Troy in modo del tutto superficiale. Gerry, come me, era un fallito e basta. Un perdente a tutto tondo.
D’altra parte per Troy, che aveva fatto della sua vita un’immagine pubblica proiettata all’estremo, non era possibile comprendere l’esistenza e l’esigenza di una vita segreta, tutta dipanata all’interno del proprio io. Talvolta spesso mi chiedo come Troy abbia potuto restare in qualche modo legato a me. Forse il senso del nostro rapporto era semplicemente legato alla casualità della relazione che, per un breve tempo, aveva dolorosamente legato i nostri rispettivi genitori.
A un certo punto il mio percorso cambiò orizzonte rispetto a Gerry. non saprei dire per quale motivo. Forse perché gli assoluti di cui si nutre l’adolescenza sono drammaticamente fragili. Si dice che Gerry fosse gay, ma in quel momento non poteva certo essere l’omosessualità presunta a separarci: la nostra diversità oltrepassava abbondantemente la banalità dell’orientamento sessuale. Nonostante il mio analista (anch’io, come Troy non fui immune da questi strani personaggi chiamati a rovistare nel profondo) non vedesse l’ore di scovare tratti di omosessualità latente, non credo che il mio distacco da Gerry fosse una questione di conferma d’identità. Probabilmente non riuscivo a reggere il peso della sua vita così inusuale e segreta. Già c’era Troy che assorbiva fin troppa energia. Poi c’erano gli occhi di mia madre e nel frattempo io, che brancolavo per sopravvivere e trovare un barlume di stabilità in un mondo che sembrava facesse di tutto per proiettarmi alla deriva. Si dice che Gerry si fosse avviato a una carriera artistica. Il teatro. Si dice che, per pagarsi i costosissimi corsi di recitazione, lavorasse in un locale di periferia facendo l’imitazione di Patty Pravo. Anche questa era un’altra contraddizione inspiegabile. Come poteva infatti una persona che aveva scelto una vita segreta e così inaccessibile mettersi in pasto a una platea di arrapati signori anziani in un night di quart’ordine.
Fortunatamente, il grosso vantaggio dell’essere giovani è che non c’è il minimo bisogno di coerenza: viviamo per quello che siamo e accettiamo ogni trasformazione senza grandi traumi. E non è detto che quella grande, pubblica bugia di Gerry non fosse, più o meno consapevolmente, funzionale a preservare il segreto che stava dietro ai suoi occhi di specchio frantumato. Mostrando pertanto un coraggio e una voglia di restare se stessi che sia a me che a Troy, in fondo sono sempre mancati.
In ogni caso Gerry, io, l’ho amato. L’ho amato per l’ostinazione a rimanere così vero e nascosto laddove tutto il mondo che mi circondava era una noiosa replica di se stesso. L’ho amato perché ho cercato, nel corso degli anni, di carpire in lui il segreto che sembrava renderlo invulnerabile a quei virulenti paradigmi che ci volevano tutti cloni di qualcosa al di fuori di noi. Lui così forte nella sua apparente fragilità, io così fragile nella mia solidità ancorata agli occhi di mia madre.
Il segreto di Gerry, lo ripeto, era proprio nei suoi occhi di specchio a pezzi. Lo avevano costretto, nel corso degli anni, a misurare ogni centimetro della realtà. Con la massima concentrazione su quei dettagli che, probabilmente ai più, passano inosservati. Di lui non ho conservato praticamente nulla. Né una cartolina, né una foto. Al tempo della separazione ero infatti troppo giovane per potermi abbandonare alla seduzione della memoria. E in ogni caso non è del mio carattere custodire reliquie del mio passato. Tutto ciò che è da salvare è riposto con cura dentro di me. Intatto fino al giorno della mia morte. Spogliato da quegli effetti del tempo che ingialliscono fotografie e logorano affetti. In me tutto sopravvive, nitido e chiaro come nell’esatto momento in cui accaduto. Mi ci abbandono quando la sera, nella solitudine della mia casa, chiudo gli occhi. Lascio che i ricordi riaffiorino spontaneamente, mi travolgano nell’assurda vertigine di emozioni per poi ritornare al loro posto. E’ come stare davanti a uno schermo bianco. Piano piano riaffiorano le immagini. Piano piano le immagini si fanno realtà, escono dallo schermo e si avvicinano a me. Mi fanno compagnia. Poi, lentamente, ritornano sullo schermo. Io le saluto, le lascio andare ed esse si dissolvono nel biancore originario. Io rimango ancora qualche istante abbandonato e stupito in una sorta di estasi che è la vita, la mia vita. E la ritrovo ogni volta più piena, carica di quella energia che mi permette di riaprire gli occhi e guardare il domani più o meno serenamente. Forse è per questo che non sogno mai. Forse è per questo che non ho mai avuto alcun bisogno di sognare.