Sunday, March 26, 2006

TENERO COME IL CUORE DEL CROTALO - capitolo 1

ESSERE O NON ESSERE: OH, SE SOLO FOSSI STATO

Sono morto, semplicemente morto. Una voce dal televisore. Di quelle che ti augurano, puntuali ogni notte, sogni d’oro. Quelle che ti mettono in contatto col caro estinto. Io sono morto da solo. Non mi si può vendere a nessuno. E tanto per far piazza pulita di tutte le cazzate sulla morte ti dico subito che non c’è nessun tunnel con la luce in fondo, nessun coro d’angeli. C’è solo il mondo, come lo vedi tu: con le verdi praterie e la merda dei cani sui marciapiedi. Cosa sono ora non lo so, d’altra parte nemmeno lo sapevo quando ero vivo, quindi tutto fila.
Mi presento col nome che i miei sciagurati genitori mi hanno messo al collo come un masso nel momento in cui mi hanno sbattuto in questo mondo.
Mi chiamo Troy, un nome che suona duro e volgare come una bestemmia e allo stesso tempo nobile e potente come un dio. Un nome che avrei visto meglio sulle copertine delle riviste porno, piuttosto che su un ipertricotico ragazzo svezzato dalle teorie comportamentistiche di Palo Alto.
Sono stato, o meglio ho cercato di essere, il meglio di quello che volevate vedere da me, il Dio che la vostra America ha sempre cercato. Non sono quindi mai stato se non nel mio lato più vero, quello più oscuro e affascinante con cui difficilmente ci si mette in relazione, quello che va custodito gelosamente come un tesoro in fondo all’anima. Come quando dici vaffanculo a tua madre ma lo fai senza che lei ti senta. Per il resto è vita straordinariamente banale: un appartamento ostentato come un loft sulla fifth avenue, una laurea in economia, una promettente carriera nella pubblicità, carte di credito, frequent flyer e tutti quegli orpelli di cui andavo tanto fiero. Le donne!!!! Oh si, le donne!!! Fiere mercenarie di sesso e sentimenti firmati. I miei amati simulacri che talvolta, e nemmeno troppo spesso, facevano l’amore col mio narcisismo, quelle che attendevano agognanti di poter sospendere la scopata per l’ennesimo giro di coca. E poi tutto il mondo intorno: né uomini, né donne (quelli infatti si chiamano Carla, Anna o Paolo), bensì una serie infinita di animali rari come me, tutti con nomi assurdi, tutti usciti in parata a far mostra della loro scintillante inconsistenza. Se solo sapessero, se solo avessero mai saputo quanto è falso il cielo in cui credono di volare...
Ma torniamo al mondo da cui vengo e nel quale, anche se non so ancora per quanto, sarò.
Chi sono. Sono ciò che tu vuoi. Un uomo del tutto simile a quelli sulla copertina delle riviste discretamente esibite sulla scrivania. Con il fascino brizzolato e quel sorriso ammiccante che è parte di un impeccabile stile. Come a dire, vuoi essere come me? Vuoi essere uno di quelli che si fanno scopare da superfighe e che addirittura si fanno pagare per farlo? O magari sei uno che paga per scopare una puttana col sorriso di Julia Roberts? Che desolazione: tutti sanno benissimo che la risposta alla domanda è una scopata monosettimanale con, quando va bene, una che non fa la modella perché non scende a compromessi: evidentemente un pompino a un pubblicitario è pertanto amore vero. Per quanto mi riguarda, se una griffe assume significati esoterici e mistici anche su un corpo del tutto mediocre e drammaticamente ipertricotico come il mio, l’apoteosi è compiuta. Eccomi. Con tutta la mia arroganza. Finto e ingenuo come quei vecchi film degli anni cinquanta dove uno sguardo sfuggente dagli occhiali scuri presagiva chissà quali prodezza erotiche. Si scopa. In realtà non mi era difficile fare la superstar: con tutta quella polvere alla fine mi sembrava veramente di essere Richard Gere e che la fortunata eletta invece che la "wannabe" di turno fosse Julia Roberts. O meglio il mio cazzo faceva tutto da solo, separato da me.
Ma cominciamo con ordine, da quell’età che non vale la pena di ricordare. Quando nasci non sei diverso da un cucciolo di qualsiasi altro animale se non per una cosa: che sei già molto più stronzo. Stronzo perché mangeresti il cuore di tua sorella per avere tutto l’affetto dei tuoi, stronzo perché sei capace di ogni menzogna per salvarti il culo, stronzo perché sai usare le lacrime come qualsiasi attricetta di quart’ordine. Ne parlo qui di quei maledetti primi cinque anni così me li faccio fuori dai coglioni e via. Come ho detto non ho un granchè di ricordi. Il primo, e forse l’unico, è sicuramente quello della piccola Jezabel, mia sorella, un’altra povera sfigata che grazie alla fantasia malata dei miei si è portata addosso il nome di una troia fenicia che ha praticamente mandato a puttane il suo popolo in nome di un Dio egotico e capriccioso. Alla mia nascita la scena più o meno doveva essere: Jezabel studia il modo migliore per farmi fuori e io il baby di Rosemary’s Baby che la guarda con occhi di fuoco da una lugubre culla nera. I nonni non c’erano già più. I miei genitori erano già allora troppo occupati a studiare i loro manuali di pedagogia alternativa per occuparsi di noi. Io e Jezabel, cazzo, non abbiamo avuto l’opportunità di contenderci l’amore dei nostri genitori. Per loro era troppo importante il significato simbolico di girare nudi per casa e anche, in quei rari momenti in cui capitava che ci tenessero in braccio era perché qualche psicologo aveva detto che bisognava farlo. Ci amavamo tra noi e ciò ci bastava. Nel frattempo succedeva di tutto: noi non eravamo che le cavie da laboratorio dei nostri genitori. E quando, poco prima dei cinque anni ho lasciato uno stronzo fumante nell’esatto centro del talamo nuziale, mio padre è corso festante a chiamare mia madre fiero della mia “primordiale istintività liberata”. Forse, in quell’occasione, mi ha amato davvero. Jez no. Lei a suo modo mi amava sempre, era utile e importante per me tanto quanto io lo ero per lei. Non esagero quindi se dico che per Jez sono forse stato l’unico uomo della sua vita. Prima che decidesse, o meglio che mia madre decidesse in vece sua, di donare il suo corpo e la sua anima agli alberi dell’ashram di Poona. Per quanto riguarda mia madre, beh non so in quegli anni, ma devo dire che se tanto mi da tanto, vista l’assenza degli anni successivi non credo si sia curata eccessivamente di me e di Jez quando eravamo piccoli. I suoi manuali della perfetta madre alternativa erano il solo nutrimento della sua misticissima mente. Nel frattempo noi crescevamo e quando mamma avrebbe potuto mettere in atto quanto imparato, tempo scaduto! Eravamo già troppo grandi, troppo soli e troppo assenti da noi stessi. Game over.

Friday, March 24, 2006

LE DIMENTICANZE DI DIO

EL SANTO - Barcellona 19 marzo 2006

La domenica non è un gran giorno. Soprattutto se conclude un weekend di fuga dall'isterica quotidianità e ne prelude il ritorno. Si può renderla migliore. Con l'affanno dell'ultimo minuto dell'ora d'aria del carcerato. Pochi amici. Un bar con le luci soffuse. Una birra gelata, anche se fa ancora freddo. Anche se l'estate è ancora lontana. C'è un uomo a malapena appollaiato sullo sgabello vicino al mio. Beve birra analcolica. Di birre alcoliche ne ha bevute anche troppe. Ha cominciato al mattino. Come tutte le mattine. ha raggiunto il limite ma pur di non smettere rinuncia alll'alcool. Mi fissa e mi saluta. Lo guardo e ricambio il saluto. Cerca il mio sguardo, io non reggo il suo. E' anziano, porta sul volto la mappa di una vita che lo ha trattato male. Porta sul volto il rossore del mal di cuore e dell'alcool. Vive in una merda di appartamento affacciato sulla Sagrada Familia. Mi parla. Lo ascolto. Dice di bere per rendere buono il suo cuore cattivo. Non ha nulla e non vuole nulla. Si interrompe. Inciampa nelle parole. Non vuole tornare a casa. Gli chiedo se è felice così. Abbassa lo sguardo. Una pausa e mi dice di si. Mi dice che è felice perchè non pensa più alla vita. Non ha di che vivere ma da quel momento vive guardando nel cuore della gente. Mi afferra la mano e mi guarda dritto negli occhi, con occhi liquefatti. Mi dice che non sono di questa terra. Mi dice che sono una persona buona. Mi dice qualcosa che non capisco più. Adesso riesco a guardarlo negli occhi. Non parliamo più. Gli stringo la mano fra le mie con tutta la mia forza. Mi perdo a leggere il suo sguardo. Pochi minuti e le mani si liberano. Un'ombra, barcollando, scompare dietro la porta del bar. Buonanotte amico mio... y suerte, buena suerte.

LA SAINTE - Parigi, 20 agosto 1999

Gare du Nord. Un caffè appena accennato tra l'aria che sa di ferro e di camicie già sudate. Una ragazza. Potrebbe avere 25 anni, più o meno. Mi si avvicina e si siede al mio tavolo. Ha la testa bassa incorniciata da un fiume di capelli neri. Non riesce ad alzarla. Gli occhi anche più neri dei capelli guardano il selciato. Sprofondano nello sprofondo. Fingo una malcelata indifferenza. Potrebbe essere una studentessa. Mia madre direbbe che è vestita in maniera dignitosa. Non parla. Ho finito il caffè e vorrei andarmene. Tra lo sferragliare dei treni si fa strada un soffio di voce. Parole veloci e sussurrate. Difficili da capire. Come se parlasse alla terra. Ad alzare la testa proprio non ci riesce. A guardarla negli occhi proprio non ci riesco. La voce si fa più chiara. Il ritmo, seppur faticosamente rallenta. Mi chiede se ho un lavoro da offrirle o se posso aiutarla a trovarne uno. Le dico che non saprei come. Mi chiede se ho dei buoni pasto, di quelli che sono in dotazione agli impegati. Le offro dei soldi. Mi dice che non li vuole perchè non è una tossicodipendente. Ripropongo l'offerta. Mi riprendo il rifiuto. Sempre a testa bassa. Sempre con lo sguardo sul selciato. Le chiedo di fare colazione con me. Prendo due croissant e due a caffè. La seconda colazione in quindici minuti per me, la prima per lei dopo chissà quanti giorni. Mangia frettolosamente senza alzare lo sguardo. Lascia metà del croissant. Scuote la testa in segno di disappunto, si alza e se ne va. Mentre io, anche oggi, mi sono guadagnato un posto nel paradiso degli ipocriti.


LA SANTA - Torino, 15 marzo 2005

Carla è raggiante. Quel leggero gonfiore sul ventre ha un nome. Quello di un bambino. Un bambino cercato da tempo. Frutto dell'amore per l'uomo che ha sempre amato. Cinguetta la propria felicità con le colleghe. Gioca come una bambina a cercare il nome. Da cinque mesi attende di poter gridare al mondo intero il suo personale miracolo. Oggi attraverso l'amniocentesi verificherà che il suo bambino è sano. Ma lei nel suo cuore lo sa già. L'amore non può sbagliare. Pochi minuti. Raccoglie frettolosamente poche cose e corre in ospedale. Silenzio. Passano le ore. Silenzio. Passano i giorni. Silenzio. Carla riappare con una maschera di cera al posto del volto. Il ventre è ancora gonfio. Sempre più gonfio. Il bambino è ancora dentro di lei. E' diverso da quel bambolotto che cullava da bambina. La sentenza del medico - fredda e ineluttabile - tuona senza sosta nella sua testa. Non una malformazione. Tante e troppe. In piena conflittualità con ogni ipotesi di vita. Carla dovrà abortire. Ma non potrà farlo nella maniera tradizionale. Il bambino è troppo grosso. I medici le indurranno un parto prematuro e - ironia della sorte - naturale. Darà alla luce una creatura solo per dargli la possibilità di morire. Carla è sparita. Si è sottratta alla scelta. Nessuno l'ha più vista. Qualcuno ha detto che ha deciso di portare quel fanciullo nel suo ventre in eterno. Sottraendolo a un mondo che gli sarebbe stato letale. Qualcuno ha detto che, alla fine, sono partiti insieme. Silenzio. Passano le ore. Silenzio. Passano i giorni. Silenzio.

Monday, March 20, 2006

TENERO COME IL CUORE DEL CROTALO - prologo

VI CHIEDO SCUSA, MAMMA E PAPA'

Vi chiedo scusa, chiedo scusa al mondo intero. Quello che segue, se mai qualcuno di voi vorrà leggerlo è il ricongiungimento con me stesso. Quello che non sono mai riuscito a compiere nel mio reale. Più vero del vero e, se mai dovesse capitarvi in mano, amici miei, sappiate che ci siete tutti. Ma non tentate di riconoscervi: ho amputato a tutti voi quell’identità banale con lame di cartapesta, trattenendo solamente alcuni tratti. Ho preso la vostra superficie, l’ho portata nel mio ventre e da li ho fatto in modo che ne venisse partorito ciò che neppure riuscireste a immaginare. Un atto d’amore accanito il mio, come quello dell’avvoltoio che si avventa su un cadavere. Vi ho presi e ci siete tutti, ma che nessuno di voi ne esca fuori per intero: siete la mia parte di vuoto che ora, cosi sospeso, si appropria del senso. Ora che sono fuori da voi. Molti nella mia situazione crepano avendo il buon gusto di portarsi nella tomba ciò che rimane dei propri ricordi. Per me non è così. Perciò vi chiedo scusa.
Non so per quanto tempo ancora sarò qui, così in bilico fra il reale e fandonia, dal momento che nulla è più vero di una bugia.
Se comunque devo dedicare la storia che segue a qualcuno, la dedico a tutti voi, amici miei, adesso che, finalmente, sono tutti voi.

Vostro Troy

Sunday, March 19, 2006

VOLEVO FARE LO SCRITTORE

Alcuni anni fa - sei per l'esattezza - dopo molti racconti e resoconti ho messo mano al mio primo romanzo. Un romanzo diviso in tre atti. E' stato un lavoro lungo e - almeno per me - importante. Niente di autobiografico: come ho già detto la mia vita ha ben poco di letterario. Tutto era nato dalla curiosità dell'osservazione. La stessa curiosità che mi porta ancora oggi all'urgenza di scrivere e, attraverso questo blog, a condividere ciò che scrivo.
Spinto dal consenso di alcuni amici che avevano letto il manoscritto, dall'entusiasmo e da una moderata dose di ambizione ho contattato alcuni editori. Nessuna risposta. Solo qualche rara e laconica lettera di tiepido apprezzamento senza alcuna possibilità di pubblicazione. Ho pertanto intrapreso, su consiglio di amici giornalisti, la via dell'intermediazione. Pare infatti che gli editori non leggano manoscritti che non siano stati preventivamente selezionati da un'agente. Ne ho scelto uno, poi un altro, poi un altro ancora. Per avvalermi del loro supporto naturalmente ho dovuto pagare. In quesi anni ho dovuto riscrivere, smontare e rimontare il mio romanzo innumerevoli volte. Rendendolo più breve. Riscrivendone completamente alcune parti. Sezionandolo come una rana sul tavolo del biologo. Il tutto per rincorrere una corrente che, evidentemente, andava molto più veloce della mia capacità di tenerle il passo. Non è successo niente. Il mio romanzo, o meglio ciò che di esso rimaneva, è rimasto nel cassetto. Ora ho preso una decisione. Quella di tirare fuori il mio romanzo dal cassetto. Quella di riscriverlo un'ultima volta per riportarlo alla forma originaria. Quella di pubblicarlo, capitolo dopo capitolo su Radio Sarajevo. E' tutto. Tutto qui.