Tuesday, April 17, 2012

CARO DOTTOR GRIMOLDI...

...mi chiamo Pier Lodigiani e sto frequentando un corso di counseling. Però non essendo ancora un counselor (e quindi un falso psicologo) approfitto del tempo che mi separa dalla fine del corso per scriverLe da privato cittadino. Uno qualunque. Uno che si è laureato in economia e commercio e che per oltre vent'anni ha fatto il comunicatore e, sporadicamente, il giornalista. Riluttante ad essere parte di ogni associazione di categoria professionale perchè, parlo di quelle che sono riferimento per la mia professione, aldilà di pochi vantaggi corporativi (dalle tessere sconto per il cinema in poi) non le ho mai ritenute particolarmente tutelanti circa l'etica e la qualità delle professioni che rappresentavano. Certo parlo di comunicazione. Una campagna pubblicitaria cannata nuoce solo alle tasche del committente. Un giornalismo di un certo tipo fa danni peggiori, ed è proprio per questo che non ho mai ritenuto le maglie larghe dell'ordine dei giornalisti particolarmente tutelanti del diritto all'informazione. Anche sulla base di queste convinzioni faccio veramente molta fatica ad accettare, ripeto da privato cittadino, la sua personalissima santa inquisizione a favore dell'ortodossia psicologica. Giocata a suon di colpi bassi, ai limiti della diffamazione gratuita e, soprattutto, priva di quel rigore istituzionale che mi attenderei da un ordine professionale che dovrebbe mettere in primo piano (o perlomeno sullo stesso piano dell'interesse corporativo), la tutela del cittadino e il suo diritto a ottenere un sostegno autentico e risolutivo rispetto alle problematiche del proprio benessere psicologico. In questo senso le posizioni espresse da Lei in qualità di Presidente dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia mi preoccupano parecchio. Nel corso della mia vita ho avuto la fortuna, all'età di ventisei anni, di incontrare una straordinaria psicanalista Junghiana. Poi ho incontrato counselor, psicoterapeuti, formatori, coach e chi più ne ha più ne metta. Tutte persone di grandissima integrità e rigore professionale. Persone che mi hanno realmente aiutato e che mi sono addirittura permesso di segnalare ad altre persone in difficoltà (ma per favore non mi mandi a casa i carabinieri: un consiglio non è un reato). Ovviamente, se fosse per lei, molti di questi dovrebbero essere in prigione (ma mi creda le patrie galere sono già sovraffollate di gente ben più titolata). Per fortuna le ho incontrate precedentemente all'avvio della sua crociata e pertanto a piede libero. A questo punto desidero condividere con Lei, che sembra avere idee tanto chiare su come ci si prende cura dell'animo umano, alcune domande e alcuni dubbi. Il primo è di natura sociale. Non crede infatti che in un contesto così sotto pressione, in una società che sta male, sarebbe più utile, invece di piantar bandiere, pensare ad alleanze in cui tutte le professioni d'aiuto possano nei rispettivi ambiti fornire in modo integrato e sinergico il prorpio contributo? Anche se non mi risponderà mai direttamente, se non altro perchè probabilmente non leggerà mai questa lettera, la sua posizione è evidente. E' un monolitico no. Sono però sicuro che la sua integrità professionale, umana e morale le consentirà di sostenere la responsabilità sociale di tale posizione (mi permetta di ricordarle che Lei, al contrario di me, ha un certo peso istituzionale e di influenza sull'opinione pubblica). In secondo luogo Lei è in grado di garantirmi che tutti, ma proprio tutti, gli iscritti all'ordine che Lei rappresenta abbiano il rigore professionale ed etico, la competenza e la serietà di cui Lei lamenta l'assenza in tutte quelle classi di professionisti diverse dagli psicologi e, che per amore di sintesi, potremmo classificare come "cialtroni"? Parlo di quelli che Lei dichiara professionisti "abusivi". Ecco riguardo alla parola "abusivo" mi permetta di non essere d'accordo. Ma forse perchè, anche in questo caso, sono stato fortunato. Le persone a cui mi sono rivolto io non hanno mai millantato di essere niente di diverso rispetto a ciò che erano. E quindi ho trovato analisti che si definivano analisti, counselor che si definivano counselor e così via... E non facevano niente di diverso rispetto a quello che si può trovare nelle rispettive definizioni facilmente reperibili su wikipedia. A questo punto, di fronte a un vocabolario ricco quanto l'animo umano, mi chiarisce su quale base lei dichiara, ad esempio, che in Italia "la professione del counselor non esiste al di fuori della psicologia ed è da sosituire con una definizione più à la page di psicologo di sostegno"? Ma soprattutto visto che il "demodé" counselor (e di conseguenza il counseling) non esiste, come mai, sempre sul sito dell'ordine, si dichiara che lo psicologo offre sostegno di counseling? Non capisco. L'Italia ha forme di vita umana peculiari e distinte rispetto al resto del mondo? Se invece, in queste farraginosissime dissertazioni, il problema centrale fosse semplicemente la cialtronaggine, sono d'accordo con lei. Il mondo ne è pieno e lo è da sempre. Credo anche all'interno della psicologia. So di un'analista che intratteneva relazioni sessuali con una paziente, si occupava di tarocchi e buddhismo tantrico. Un'altro sembrava coltivare una certa passione per la cocaina e per i sigari a cui dava un significato meglio esplicitato più tardi da Bill Clinton. Un altro ancora esercitava la nobile "scienza" (ma allora era ancora un'arte) della psicologia sulla base di una laurea in ingegneria. Che mancanza di deontologia! Però sembra che questi fossero tutti comunque bravissimi. Si chiamavano Carl Gustav Jung, Sigmund Freud e Donald Norman. Fortunatamente due di loro sono morti e pace all'anima loro. Norman ivcece esercita abusivamente aldilà dell'oceano e non corre il rischio del rogo. Per quanto mi riguarda, vivendo in Italia e adesso che so che c'è Lei, in caso di bisogno di un supporto professionale di sostegno psicologico, mi basterà incrociare i nomi presenti sulle pagine gialle con quelli pubblicati nel sito dell'ordine per sentirmi garantito circa l'ortodossia e la competenza terapeutica. Ferma restante la mia sacrosanta libertà di scegliere successivamente l'eresia e di rivolgermi a chi meglio credo, fossanche un cartomante (visto che la predizione del futuro non sembra rientrare ancora tra le competenze esclusive dello psicologo, nonostante Jung ne subisse una certa attrazione).
Saluti.

Tuesday, April 10, 2012

C'ERA UNA RAGAZZA

C’era una ragazza, qui, in Italia, che aveva consacrato la sua giovane età all’impegno. Era una ragazza molto forte, in un’epoca in cui essere forti e credere in un’ìdea era pericoloso. Erano tempi in cui essere allineati non era un‘opzione. Significava sopravvivenza. Soprattutto per una ragazza. Si, in quei tempi le ragazze, le brave ragazze, dovevano stare zitte. Al massimo potevano condividere sottovoce opinioni sulla moda. In attesa di sposare qualcuno che pensasse al posto loro. Miriam non era così. Miriam non era una brava ragazza. Pensava da sola. Si innamorava e se poi non era più innamorata si chiudeva la porta dietro le spalle e andava altrove. Non solo. Miriam si interessava di politica, parlava di femminismo e di lotta e quando lo faceva non sapeva usare mezzi termini. Anche questo non si addiceva alle brave ragazze. A un certo punto Miriam incontra l’amore della sua vita, il partigiano “Nullo” Giancarlo Pajetta, ed è stato un amore grande e intenso. Ma non come quello delle brave ragazze. Miriam infatti era sposata, era madre e a quei tempi non esisteva il divorzio. Ma a lei delle convenzioni non è che importasse granché. Anche perché il suo unico vero e grande amore era la nuda verità. Tanto che nel corso della sua vita lei ha sempre detto che “tra un week end di passione con il mio Pajetta e un’inchiesta io preferirò sempre, deciderò sempre per la seconda”. Miriam infatti sapeva scrivere. E scrivendo non guardava proprio in faccia nessuno. Miriam non aveva paura. La superava con l’ostinazione, con la rabbia e con il coraggio di chi crede profondamente nella libertà. La propria, quella delle altre donne e quella di tutti. Miriam, insieme ad altre cattive ragazze che si chiamavano Camilla, Oriana, Rossana, Luciana e Adele, era una disobbediente di professione. Era una ragazza incapace di piegarsi. Lei voleva dire la sua e la sapeva dire meglio di qualsiasi altra. Era una di quelle che non si fidava, perché, lo diceva spesso, “non si può mai abbassare la guardia”. Per questo Miriam era scomoda a tutto tondo. Lei in certi ambienti non sapeva fare buon viso a cattivo gioco. Nelle stanze del potere ad esempio. La ragazza Miriam entrò in parlamento nel 1994 e ne uscì un anno dopo affermando lapidaria che “una cosa è dare le noccioline alle scimmie e una cosa trovarti dentro la gabbia delle scimmie”. La ragazza Miriam non ha mai avuto una vita facile, perché era una di quelle donne che non sapeva stare zitta. Severa, radicale e integra senza riserve era una donna poco incline ai compromessi. Credeva nella partecipazione e nell’ostinazione nel credere che l’Italia un giorno sarebbe stato un paese migliore. Un paese libero e un paese civile. L’ultima volta che ho sentito le sue parole, dure come la pietra e feroci come proiettili diceva: “Berlusconi non capisce, o fa finta di non capire, che il problema non è essere gay o eterosessuale, scelta assolutamente rispettabile e privata. Esistono in Europa, diceva, leader politici dichiaratamente gay ma nessuno di questi ha mai trasformato una sede pubblica in un luogo di grotteschi festini”. Mi fermo qui. Perché oggi la ragazza Miriam è andata via. Da adesso in poi, di parole su di lei, più o meno utili e più o meno circostanziate da quelle convenzioni che Miriam odiava con tutte le sue forze, esonderanno ovunque. Fedeli al detto che “il morto è comunque santo” a cui aggiungo “soprattutto quando è morto”. Io oggi mi limito a stare per un po’ con il ricordo di questa esile ragazza che non ho mai conosciuto e che mi manca, mi mancherà e mancherà all’Italia. E concludo queste brevi riflessioni unendomi alla commozione di chi, come la mia amica Ariel, ha avuto la fortuna di avere la ragazza Miriam vicino a se per tutta la vita. E che oggi le dice “buon viaggio zia”. Non una parola di più.