Friday, March 24, 2006

LE DIMENTICANZE DI DIO

EL SANTO - Barcellona 19 marzo 2006

La domenica non è un gran giorno. Soprattutto se conclude un weekend di fuga dall'isterica quotidianità e ne prelude il ritorno. Si può renderla migliore. Con l'affanno dell'ultimo minuto dell'ora d'aria del carcerato. Pochi amici. Un bar con le luci soffuse. Una birra gelata, anche se fa ancora freddo. Anche se l'estate è ancora lontana. C'è un uomo a malapena appollaiato sullo sgabello vicino al mio. Beve birra analcolica. Di birre alcoliche ne ha bevute anche troppe. Ha cominciato al mattino. Come tutte le mattine. ha raggiunto il limite ma pur di non smettere rinuncia alll'alcool. Mi fissa e mi saluta. Lo guardo e ricambio il saluto. Cerca il mio sguardo, io non reggo il suo. E' anziano, porta sul volto la mappa di una vita che lo ha trattato male. Porta sul volto il rossore del mal di cuore e dell'alcool. Vive in una merda di appartamento affacciato sulla Sagrada Familia. Mi parla. Lo ascolto. Dice di bere per rendere buono il suo cuore cattivo. Non ha nulla e non vuole nulla. Si interrompe. Inciampa nelle parole. Non vuole tornare a casa. Gli chiedo se è felice così. Abbassa lo sguardo. Una pausa e mi dice di si. Mi dice che è felice perchè non pensa più alla vita. Non ha di che vivere ma da quel momento vive guardando nel cuore della gente. Mi afferra la mano e mi guarda dritto negli occhi, con occhi liquefatti. Mi dice che non sono di questa terra. Mi dice che sono una persona buona. Mi dice qualcosa che non capisco più. Adesso riesco a guardarlo negli occhi. Non parliamo più. Gli stringo la mano fra le mie con tutta la mia forza. Mi perdo a leggere il suo sguardo. Pochi minuti e le mani si liberano. Un'ombra, barcollando, scompare dietro la porta del bar. Buonanotte amico mio... y suerte, buena suerte.

LA SAINTE - Parigi, 20 agosto 1999

Gare du Nord. Un caffè appena accennato tra l'aria che sa di ferro e di camicie già sudate. Una ragazza. Potrebbe avere 25 anni, più o meno. Mi si avvicina e si siede al mio tavolo. Ha la testa bassa incorniciata da un fiume di capelli neri. Non riesce ad alzarla. Gli occhi anche più neri dei capelli guardano il selciato. Sprofondano nello sprofondo. Fingo una malcelata indifferenza. Potrebbe essere una studentessa. Mia madre direbbe che è vestita in maniera dignitosa. Non parla. Ho finito il caffè e vorrei andarmene. Tra lo sferragliare dei treni si fa strada un soffio di voce. Parole veloci e sussurrate. Difficili da capire. Come se parlasse alla terra. Ad alzare la testa proprio non ci riesce. A guardarla negli occhi proprio non ci riesco. La voce si fa più chiara. Il ritmo, seppur faticosamente rallenta. Mi chiede se ho un lavoro da offrirle o se posso aiutarla a trovarne uno. Le dico che non saprei come. Mi chiede se ho dei buoni pasto, di quelli che sono in dotazione agli impegati. Le offro dei soldi. Mi dice che non li vuole perchè non è una tossicodipendente. Ripropongo l'offerta. Mi riprendo il rifiuto. Sempre a testa bassa. Sempre con lo sguardo sul selciato. Le chiedo di fare colazione con me. Prendo due croissant e due a caffè. La seconda colazione in quindici minuti per me, la prima per lei dopo chissà quanti giorni. Mangia frettolosamente senza alzare lo sguardo. Lascia metà del croissant. Scuote la testa in segno di disappunto, si alza e se ne va. Mentre io, anche oggi, mi sono guadagnato un posto nel paradiso degli ipocriti.


LA SANTA - Torino, 15 marzo 2005

Carla è raggiante. Quel leggero gonfiore sul ventre ha un nome. Quello di un bambino. Un bambino cercato da tempo. Frutto dell'amore per l'uomo che ha sempre amato. Cinguetta la propria felicità con le colleghe. Gioca come una bambina a cercare il nome. Da cinque mesi attende di poter gridare al mondo intero il suo personale miracolo. Oggi attraverso l'amniocentesi verificherà che il suo bambino è sano. Ma lei nel suo cuore lo sa già. L'amore non può sbagliare. Pochi minuti. Raccoglie frettolosamente poche cose e corre in ospedale. Silenzio. Passano le ore. Silenzio. Passano i giorni. Silenzio. Carla riappare con una maschera di cera al posto del volto. Il ventre è ancora gonfio. Sempre più gonfio. Il bambino è ancora dentro di lei. E' diverso da quel bambolotto che cullava da bambina. La sentenza del medico - fredda e ineluttabile - tuona senza sosta nella sua testa. Non una malformazione. Tante e troppe. In piena conflittualità con ogni ipotesi di vita. Carla dovrà abortire. Ma non potrà farlo nella maniera tradizionale. Il bambino è troppo grosso. I medici le indurranno un parto prematuro e - ironia della sorte - naturale. Darà alla luce una creatura solo per dargli la possibilità di morire. Carla è sparita. Si è sottratta alla scelta. Nessuno l'ha più vista. Qualcuno ha detto che ha deciso di portare quel fanciullo nel suo ventre in eterno. Sottraendolo a un mondo che gli sarebbe stato letale. Qualcuno ha detto che, alla fine, sono partiti insieme. Silenzio. Passano le ore. Silenzio. Passano i giorni. Silenzio.

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