Tuesday, February 21, 2006

L'ESERCIZIO DELL'AMMIRAZIONE

Essere o non essere...non necessariamente può essere un problema. Potere, volere e/o dover scegliere è semmai il vero problema. In ordine sparso: Kenneth Branagh, Deepak Chopra, Steve Mc Queen, Joe Strummer, Kevin Spacey, l'agente Mulder, il Dalai Lama, Billy Joel, Brett Easton Ellis, Gershom Sholem, James Ellroy, Nicole Kidman, Bono, Gary Oldman, David Leavitt, Ed Sullivan, Lestat il vampiro, Dave Gahan, Che Guevara, Guillermo Toledo, Sam Shepard, Eugene O'Neal, Arthur Miller, Lee Strasberg, Colin Farrell, Keanu Reeves, Madonna, Krishnamurti, Cate Blanchett, Sinead O'Connor, Giovanni Ribisi, Peter Gabriel, Chris Martin, Robert De Niro, The Edge, David Pasons, James Joyce, l'agente Scully, Joe Di Maggio, Robbie Williams, Meg Ryan, Dave Stewart, Moby, Billy Bob Thornton, Buffy l'ammazzavampiri, Bruce Willis, Carlton Myers, Edward Norton, Gerry Adams, Jeremy Davies, Sarah Jessica Parker, Greg Araki, Ryuichi Sakamoto, Andrew Lloyd Webber, Roberto Malone, Kevin Smith, Emma Thompson, William Hurt, Steven Spielberg, Leonard Cohen.

Sunday, February 19, 2006

L'ASTRONAUTA

L'astronauta è uno straniero. La sua patria sono le suole delle sue scarpe. Non che gli si neghi una collocazione. E'semplicemente all'esterno. Guarda il mondo con due occhi grandi, di indefinibile colore che gravitano come due satelliti. Conosce la potenza dello sguardo. Lo sguardo è conoscenza e l'astronauta la raccoglie, la porta nel suo ventre e la nasconde. Nessuno, per quanto arrogante possa essere, può dire di provare l'emozione di un astronauta. Si tratta di cose che, se non si sperimentano, si possono solo immaginare. L'astronauta corre. E' più curioso del vento ed è attraverso il vento che parla. Non c'è per nessuno, forse neanche per se stesso, perso com'è a osservare l'immenso vuoto. L'astronauta lo puoi sognare. Un sogno di celluloide in bianco e nero. Per farti cogliere le mille sfumature soffocate nella vertigine del colore. L'astronauta è un mistero in volo. Lo si può vedere sfuggente come l'ombra attraversata da un bagliore. Muta rapidamente lungo l'ellissi dell'orbita. Per capire devi anche tu essere un astronauta, con la corazza di candido metallo. Se guardi bene forse puoi vederlo per un secondo, in volo tra Berlino a Milano. Oggi è il suo compleanno, ma lui non se ne accorge, non gli importa, perso com'è a guardare il cielo e a correre aggrappato ad un fagotto di pensieri pulsanti al ritmo del suo cuore...

Thursday, February 16, 2006

IL CANTO DELLE SIRENE

Il valore del silenzio. Un vuoto immenso. Pieno di rauchi ricordi. Momento da tesaurizzare. Quando sei li, solo a girare il perimetro di un cerchio al cui centro c’è la tua vita. Osservandola prima distrattamente. Poi fissandola nel più profondo: in completa assenza di valore. Sei tu come non sei mai stato. Con i tuoi fallimenti e i tuoi successi. Laddove sono proprio i tuoi fallimenti a renderti quell’eroismo quotidiano che ti ha fatto uomo. Un momento infinito dove il tempo è relativo come tutto il resto. Un momento rotto da un suono stridulo come il gesso che gracchia sulla lavagna. Il tesoro sprofonda nel buio e lo sguardo scorre sul televisore. Apprendi che il mondo è stato sconquassato da uno dei più violenti terremoti che la storia del mondo abbia mai avuto. E’ dall’altra parte del mondo, di quel mondo tropicale e corallino da cui tu sei appena tornato. Risveglio dal tuo sogno vacanziero. Non c’è più se non nel tuo sogno. Non riesci a realizzare. Non per qualche scontato sconvolgimento. Non perché, cazzo, una settimana li c’eri tu. Più niente. Quel suono maledetto e gracchiante del tuo cellulare. Il cellulare non può essere ignorato. Suona e tu, da bravo soldatino rispondi. Non è consentito non farlo, non sta bene. La risposta immediata è dovuta, è la base del bon ton del terzo millennio. Aggiusti la voce per celare il fastidio dell’inopportunità. Non guardi neppure chi è. Sta suonando da troppo tempo. E tu di tempo non ne hai. O meglio non ne hai più. Travolto dalla tua personale tsunami elettromagnetica rispondi con un rapido e interrogativo “si?”. Appena il tempo di capire chi è. L’acuta sillaba della risposta sprofonda nell’impostazione baritonale da attore consumato. Per lei. Lei ti ha lasciato nove anni fa. Lei sostanzialmente non ti ha mai preso perché quando stava con te era di un altro. Lei che a un certo punto sarebbe stata anche disposta a barattarti con l’esangue marito a cui, un giorno, aveva giurato eterno amore. Diventato progressivamente più etereo che eterno. Lei che è diventata quella sporadica amica che il bon ton del terzo millennio impone agli amanti non più tali. Come sono lontani i coraggiosi amori clandestini con duello finale e odio per l’eternità. Pronuncia il tuo nome come in un soffio interrotto. Come per accertarsi che sia davvero tu. Raccogli il gomitolo dei tuoi pensieri e lo butti in un angolo. Idra, fastidioso ingombro della tua intimità. “Come stai?”. Quanta convenienza nella sconvenienza. Non gliene frega un cazzo di sapere come stai. Non gliene importava nulla quando eravate insieme, figuriamoci adesso. E’ lei che vuole dirti come sta. Male, ovviamente. E non c’è abituata. Il dolore per certe persone è così lontano. Lontano almeno quanto la distanza tra la sua scrivania modaiola e la strada dove scorre la vita delle persone comuni. Lontana perché non percepibile dal sottovuoto del taxi che Idra prende ogni mattina e ogni sera per spostarsi da casa sua alla reggia di cui è imperatrice assoluta.
Ora sta male. E lo viene a dire proprio a te. A te che sei lontano. Avulso al dolore almeno quanto lei ma con una polarità opposta. Con quegli occhi grandi quanto la tua stanchezza puntati dritti al nulla eterno. Abbandonato da te stesso nella tua casa trincea. “io sto bene”- un attimo di pavida esitazione – “e tu?”. Quella domanda che non avresti voluto fare ma che l’automatismo delle buone maniere ti impone. “No…sai” – schiarisce la voce. Per un momento squittisce “mi stanno succedendo un sacco di cose”. Quali cose? A tutti – a parte te – succedono un sacco di cose e perché raccontartele poi… “Sei l’unico vero amico che ho”. A parte quei graziosi accessori che passano sotto il nome di uomini e che ingombrano le sue lenzuola, immagini. A parte il suo celeste sposo (o è diventato già ”amico”). L’unico che ha risposto all’appello. Questo si. Per quella strana abitudine del non tirarsi mai indietro. “Ho lasciato mio marito, o meglio, ci siamo lasciati”. Ma quanto è vigliacca, pensi. E come mai la voce è diventata ferma e sonora come la lettura di un verdetto in tribunale? Per fortuna un suono monocorde e sordo come vorresti essere tu in questo momento lascia che questi pensieri girotondino nella tua mente senza diventar parole. Pochi secondi e il cellulare suona nuovamente. E’ ancora lei. Nemmeno il tempo di attivare la comunicazione e “senti ho bisogno di parlarti mi dai il tuo numero di casa? Sei a casa vero? Dimmi che sei a casa e che sei solo”. Si, sono a casa, la stessa, con lo stesso numero e la stessa solitudine. “Richiamami”. Non ce l’hai fatta neanche stavolta. La vedi mentre fuma nervosamente buttata sul letto. Vuoto. Lei con il suo abitino scuro e quel trucco discreto sfatto come il suo letto. Una regina improvvisamente trasformata nella più ignobile delle puttane. E' incredibile quanto regine e puttane si somiglino. Quando ti ha lasciato Idra aveva preso tutto da te. Con la sua “amichevole” indifferenza a quest’ora potresti anche essere sulle banchine della metropolitana a chiedere l’elemosina. Strana la vita. E’ lei ad elemosinare, ma da brava puttana, lo fa con l’invadenza di un caterpillar.
Il telefono. Quello che da anni suona sempre meno. Ancora lei. “Sai ti dicevo, mio marito mi ha lasciato. No, non c’è un’altra. E’ che da parte sua si sente consumato. Dice che sono fredda”. In che senso pensi? Non certo sessualmente, visto che la sua passera è più frequentata della stazione centrale. E poi chi crede di convincere con quella voce da cagnetta bastonata? Non sai cosa dire. Ascolti in silenzio ma nel tuo intimo la cornetta del telefono è diventata il bicchiere di chi origlia attraverso i muri. Stai preparando il tuo personale trionfo di perdente. E il respiro si fa calmo, tranquillamente in attesa di ulteriori dettagli. La voglia di sapere ha ormai sopraffatto il fastidio di sentirla. “E’ strano quanto ti accorgi di amare una persona quando non c’è più”. Ti stizzisci. La tua voce perde il controllo e si fa acuta e feroce. “Ho provato la stessa fitta nove anni fa quando mi hai lasciato” rispondi. “E’ per questo che è finita, perché non potevo permettermi uno come te. Senza controllo, senza freni, senza progetti”. “No scusami, non volevo… parlami di te… come stai…”: non puoi permettere che uno scatto d’ira cancelli il succulento pasto della vendetta. Lei riattacca. L’hai persa un’altra volta. Pensi al suo letto sfatto. Pensi a tutto per non pensare a niente. Sei tu a chiamarla. Mentre lei masturba ossessivamente le lenzuola. “Scusami, scusami, davvero…” la tua voce è infantile. Ti rende quella vulnerabilità che davvero poco si addice a un uomo come te. Dall’altra parte, aldilà di una parete di chilometri d’aria un fioco sospiro da cui scivolano veloci le parole “la rivista chiude, se perdo il lavoro non so davvero cosa fare…”. Tutto torna. In quanto a non saper cosa fare tu sei un esperto. Giovane promessa del teatro scivolato nel doppiaggio. E dal doppiaggio di parti minori in film importanti agli spot televisivi e alle fiction sudamericane. E’ stato un attimo. Quell’attimo in cui hai deciso di isolarti dal mondo per verificare come avrebbe reagito il mondo. Ha reagito con l’indifferenza e a quel punto tu eri già oltre la soglia di non ritorno. Una voce senza nome. Un titolo di coda maledettamente ghigliottinato dalla pubblicità. Una voce nel buio. “Ci vediamo a pranzo domani? Così ne parliamo con calma”. Ma di che cosa vuoi parlare? Idra vuole solo essere ascoltata. Non può capire l’eroismo del tuo sacrificio. Che d’altra parte è condivisibile solo da chi, come te, l’ha vissuto. E poi quel tono di voce. Cazzo, non stai lavorando. Lei lo intuisce. Ti liquida con un “ma no, a che serve: domani forse sarà già tutto diverso…”. La voce riprende quota. E’ questo che hai sempre invidiato di Idra. La capacità di intuire - sempre e comunque – una possibilità. Quell’arroganza di chi sa di non perdere davvero mai. Ti toglie il respiro. Non sai cosa dire. Deglutisci come ad incassare un colpo dritto allo stomaco con relativa tsunami di acidi gastrici. Lei sta mordendo il cuscino zuppo di lacrime ma allo stesso tempo, più sotto, è già bagnata godendo del suo futuro. Tu non sai piangere. La tua emozione si chiude con la tua voce. E non sai più dominarla nemmeno molto bene. Ma stavolta ti sta chiedendo aiuto. Insisti. “Dai vediamoci domani. Mi parlerai dei tuoi progetti…sai, per telefono…” . Per telefono non riesci a godere pienamente della sua lancinante icnografia. La immagini come puoi. Anche perché – nel tuo isolamento - ti riesce sempre più difficile immaginare. Cede con insolente senso di noia. “Va bene salto su un taxi e sono li alle tredici”. La sua voce ha lo stesso timbro monocorde di una segreteria telefonica. Conclusiva di una conversazione che invece poteva proseguire per ore. Era questo che volevi. Ma sei così drammaticamente abituato a sbatterti la porta in faccia. Non rimane che un reciproco ciao. Il suo, deciso e tonante come un insulto. Il tuo, convulso e confuso come chi agisce in senso diametralmente opposto alla propria volontà. Riattacca. Non tu. Rimani ancora un istante nell’illusione del contatto. Ancora una volta la parola fine l’ha detta lei. Secca e sicura. Disperata forse. Non sai decodificare il suo ciao. E’ l’estremo saluto di chi cercava il non trovato? E’ l’estremo saluto – raro gesto d’amore - di chi si arrende ad una realtà nuova e crudele a cui non sa reagire? E’ l’estremo saluto e basta? Comunque l’ha rivolto a te. Fissi il telefono con la testa sotto una pioggia di pensieri radioattivi. Perché tu, che con la voce ci lavori, non riesci a dare un significato a quel ciao? In fondo vi vedrete domani. O forse non vi vedrete più. Perché come in un film degli anni cinquanta la telefonata prelude al gesto definitivo. Non è possibile. Lei sta già pensando al futuro. O forse te lo ha detto per non preoccuparti. Ma in fondo non le è mai importato un granché di come ti sentissi. Pensa a te. Goditi la tua rivincita. Te la meriti tutta. Lei che si è fatta fotografare con un piede sul tuo petto pochi minuti fa, solo pochi minuti fa era in ginocchio ad implorare la tua pietà. Certo, alla sua maniera.
Cazzo, quanti pensieri prima che arrivi domani. Non è da te riscoprirsi tanta umanità sepolta accuratamente sotto l’iceberg della solitudine. D’altra parte non è da te, questa sera, scambiare l'ansiolitico garante dei sogni che da solo non riesci più a fare con tanto cardiotonico da farti scoppiare il cuore...

Monday, February 06, 2006

IL PESO DEI PASSI PERDUTI

“Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando hai finito di leggerli e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira” (J.D. Salinger, Il Giovane Holden). Ormai gli amici, il tuo migliore amico, non può che essere l’autore di un libro, del tuo libro, o il suo protagonista. L’unico con cui riesci a stabilire una relazione tanto intima quanto impraticabile. L’unico che ti dà le risposte alle domande che neppure sapevi di dover chiedere. L’unico che ti lascia entrare in se e che entra in te in modo assoluto. Senza se e senza ma. Il tuo migliore amico insomma. Quello che ti sei lasciato per strada e che a sua volta hai lasciato col culo per terra nel corso degli anni. Quello buttato via in quella corsa senza sosta e mai finita per portare, fiero, quei pantaloni lunghi che oggi butteresti alle ortiche. Per riprendertelo, il tuo migliore amico. E telefonargli tutte le volte che ti gira. Quell’amico che per un sacco di tempo non ti ha mai deluso. Quell’amico che ti reggeva la testa mentre vomitavi la prima sbronza e insieme a lei il primo amore. Fallito ovviamente. Quell’amico con cui avevi formato la tua personalissima “società segreta”. Quell’amico con cui avevi iniziato la tua rivoluzione personale. Non era un caso che, allora, ci si innamorasse con sincronica simultaneità. La stessa simultaneità con cui, di quei perduti amori, si perdeva ogni traccia. E allora giù, a dissertare e bere. Poco per volta il bere prendeva il sopravvento e ci si reggeva l’un l’altro sulla strada verso casa. Svuotati. Finiti, con la testa fra le mani e l’alito assassino. Con la ferma convinzione che il giorno dopo con uno sguardo la “società segreta” sarebbe diventata una “società di mutuo soccorso” e di li si sarebbe ripartiti. Verso nuovi amori e nuove sbronze.
Dove è finito il tuo migliore amico? Chi è stato il primo a tradire? Tu con la tua smania di carriera, o lui, che approdato al talamo matrimoniale e in men che non si dica ha messo su dieci chili e un paio di figli aspettando le due di notte per un sano raspone di fronte a un film porno?
Sicuramente avete tradito entrambi. Ci siamo traditi tutti. Come era ingiusto che fosse. Come, ci conviene dire, il corso della vita impone. Il tuo migliore amico è morto. Prova a pensarci. Prova a immaginare quanta ipocrisia riusciresti a trovare dentro te per piangere su tutte le cose che avresti voluto dirgli ora, che non puoi più. Come ti senti ad inscenare la morte di qualcuno di cui tu stesso, nel tuo intimo, hai celebrato funerali e sepoltura almeno vent’anni prima? Perché non gli hai mai detto quelle cose di cui improvvisamente senti tanta urgenza? Quante volte hai staccato il telefono per non rispondere alle sue chiamate? Stavi attendendo quell’ultimo, fatidico giorno, negato da un ostinato destino? Si.
Prima, in tutte quelle rare volte che lui, il tuo migliore amico, ti chiamava, con celato fastidio mostravi la stessa cortese cordialità che si conviene con la peggiore delle suocere.
E in quelle rare riesumazioni del vostro rapporto, il frigore del primo approccio e il fragore dei silenzi insostenibili era bastato e convincervi che non era assolutamente il caso.
E lui non era da meno. Ti chiamava ormai soltanto in coincidenza dell’aumento di stipendio. Se stavi male ti pregava di “non esitare a chiamarlo”. Sempre che si trattasse di “vero” bisogno. A suo insindacabile giudizio.
O magari ti confessava repentinamente di stare peggio di te. Chiuso.
D’altra parte per crescere, si dice, sia necessario tagliare i cordoni ombelicali. Bisogna chiudere col passato appunto. Si butta tutto nel cesso, si tira l’acqua e via. O magari si chiude tutto in un cassetto. L’ultimo, il più inaccessibile, in modo che se ti venisse casualmente voglia d’aprirlo, è tanta la fatica di farlo che desisti subito. Ufficialmente perché le cose più preziose, quella porzione del tuo passato che, solo casualmente non è finita nel cesso, vanno tesaurizzate. Sono lettere, foto e cartoline. Ammesso che si possa chiudere a doppia mandata il passato fuori di casa, dimmi, che ti succede ora? Il tuo vecchio “migliore” amico ha lasciato il posto ad uno nuovo “migliore” del precedente? Più o meno come si fa quando passi da una fidanzata all’altra? Lasciami indovinare. Vedi gente, “fertilizzi il terreno” come hai imparato dai tuoi dotti manuali di autostima. Parli di lavoro, dell’ultimo film, della guerra in Iraq e poi ancora di lavoro e di soldi. Che poi sono l’unica cosa che davvero interessa a te e a chi ti sta ascoltando. Certo non così direttamente, che volgarità sarebbe. Sussurri l’argomento con considerazioni come l’appartamento da ristrutturare o trend di varia natura. Solo di una cosa non parli mai, e solo a pensarci ti viene il nodo in gola. Di quell’amico, del tuo migliore amico che trovi – e continuerai - a trovare in quei libri che ti lasciano senza fiato. Quell’amico che vorresti chiamare al telefono ogni volta che ti gira. Quell’amico di cui non avrai mai il numero di telefono.