Wednesday, October 30, 2013

SENZA PUDORE

LEGGERE certe notizie però fa venire una rabbia incontenibile. Come può un ragazzo di 21 anni uccidersi perché gay? Colpa della società in generale e delle famiglie in particolare. Colpa degli educatori e dei sacerdoti di qualsiasi religione che non sanno aiutare. La responsabilità principale però ce l’hanno i gay pride che con le loro pagliacciate credono di rivendicare libertà e diritto, e invece danno il cattivo esempio di cosa deve essere il gay. Detto ciò, è giusto “approfittare” del suicidio di un ragazzo per avviare un dibattito sociologico o psicologico su un tema dove peraltro non sembrano esservi certezze? No, non lo è. Perché la morte di quel giovane è troppo drammatica e particolare per affondare nel mare anonimo delle statistiche e dei luoghi comuni". Lo scrive Laura Fasano, vicedirettore de Il Giorno", sul suo blog "Crema e Cioccolato".
Signora Fasano ma di cosa stiamo parlando? Si rende conto di quello che dice? Se ne prende la responsabilità? Su quale base si arroga il diritto di dire ciò' che "il gay" (neanche fosse una professione) deve o non deve fare? Anche io, per una parte della mia vita ho avuto alcune riserve verso manifestazioni come il gay pride, perché in qualche modo pensavo che consolidassero un'idea di omosessualità stereotipata e un po' forzata. Poi ci sono andato e ho cambiato idea: ciò che pensavo era un fottuto pregiudizio. Per l'amor del cielo, mai mi è passata per la testa l'idea terrificante da lei espressa di "pagliacciata che pretende di rivendicare libertà e diritto". Semplicemente mi sembrava che il lato sociale e politico di questa manifestazione che, le ricordo, commemora gente che è crepata, fosse troppo in secondo piano rispetto alla spettacolarizzazione. Poi, come dicevo, ci sono andato e sono rimasto sorpreso. Perché ho visto una grande festa. C'era gente di tutti i tipi e colori (comprese famiglie con bambini che, le assicuro, si divertivano moltissimo). E quello che lei insulta con l'epiteto di "pagliacciata" è invece davvero una rivendicazione di libertà e diritto. Libertà e diritto ad essere quello che si è e comunque sia. Affermazione di una normalità molto diversa da quella, borghese piccola piccola, di cui trasudano le sue parole. Una normalità che nasce dall'accoglienza serena e totale della diversità, di tutte le diversità e che proprio perché pienamente riconosciute e rispettate alla fine non sono più così diverse. E poi cosa intende per pagliacciata? Glielo dico io. Parla di gente che balla sui carri. Di gente troppo tra-vestita o troppo svestita. E quindi? Praticamente ogni sera, verso le 19:00 e su ogni canale televisivo, tra letterine, letteronze, veline e velini c'è un piccolo gay pride nelle case di tutti gli italiani. Quindi mica ci scandalizzeremo se gli stessi outfit vengono utilizzati all'interno di una dimensione festaiola di un giorno d'estate. O magari anche lei è una di quelle che parla di orge a cielo aperto e sotto gli occhi dei bambini. Forse ero distratto, ma non le ho viste. Poi magari, a tarda notte, ci saranno state pure quelle. Ma in posti al riparo da occhi indiscreti e fuori fascia protetta. Se lei è una giornalista e vive a Milano saprà che da sempre vi sono luoghi in cui la gente, eterosessuale o omosessuale poco importa, si ammucchia allegramente con pieno e sacrosanto diritto di farlo. Se poi quello che le da fastidio è che la comunità gay richieda di essere vista, riconosciuta e "compresa" (in senso etimologico) e che manifesti tale richiesta con il linguaggio della festa e non con quello melodrammatico dei talk show "mausoleo dell'eterna infelicità" è un problema squisitamente suo. E che la sua deontologia di giornalista non dovrebbe consentirle di renderlo paradigma per l'opinione pubblica. Quindi, per concludere, il problema non è il gay pride (nessuno si è mai suicidato per una celebrazione del rispetto e del "diritto ad esistere" portata avanti in piena legittimità, legalità e civiltà a suon di musica e balli in piazza). Il problema è lei, e le persone come lei. Quelle che si permettono di puntare il dito contro coloro che, a seguito di un fatto grave come il suicidio di un ragazzo, avviano un "dibattito sociologico o psicologico su un tema (l'omosessualità) dove, secondo lei, non sembrano esserci certezze". Di nuovo, di che cosa stiamo parlando? Di certezze su questo tema ce ne sono eccome: l'esistenza riconosciuta in primis e il diritto ad esprimerla nella massima libertà che deve essere garantita ad ogni essere umano. E il dibattito serve a trovarne altre e poi a condividerle perché vengano accolte e percepite come nutrimento e valore per l'intera società. In modo tale che, magari, l'orientamento sessuale e l'identità di genere, prima o poi, non abbiano più bisogno di diventare motivo di orgoglio (o di vergogna) ma siano una caratteristica con lo stesso peso del colore dei capelli. Le sue personalissime proiezioni invece creano paura, disagio e discriminazione. Sono le stesse, odiosamente ipocrite, di quelle famiglie, di quegli educatori e sacerdoti contro i quali lei punta il dito. E che come dimostrano i fatti, quelli che le provocano "rabbia incontenibile", possono davvero portare un ragazzo di 21 anni a gettarsi dalla finestra. Quindi, almeno per la parte che le compete, si vergogni e rifletta, invece di pontificare.