LA FINE, DALL'INIZIO.
Era oggi ed era tre anni fa. Un weekend di inizio marzo. Un’ipotesi di serata in discoteca – dove non vado davvero mai – con gli amici. Tra una
cosa e l’altra, come spesso succedeva, ci infilavo una telefonata a mia madre.
Niente di che. Giusto un saluto e sapere come stava. Poco più di un minuto. Quella
sera il telefono suonò a vuoto. Sarà uscita un momento, pensai. Su questo punto,
io e mia madre eravamo veramente agli antipodi. Se io non la trovavo (e succedeva di rado) la
pensavo a fare la spesa. Se era lei a non trovare me, invece, quasi sicuramente
era successo qualcosa di tragico. E sottolineo che per mia madre “qualcosa di
tragico” poteva essere anche un raffreddore o un’unghia incarnita. Si sa come
ragionano le mamme. Si sa con quanta ostinazione si oppongono all’idea che i
figli crescano e che, crescendo, riescano – più o meno – a prendersi la benché minima
responsabilità sulla propria vita. Nel mio caso, e soprattutto nella cura della
salute, questa ostinazione un fondo di ragione l’aveva eccome. Comunque quella
sera, mia madre non era uscita a fare shopping. Lo realizzai molto presto,
quando ricevetti una telefonata da parte di mia cugina. Mi comunicava che mia
madre era stata male. Molto male. Fortuna volle che in casa mia ci fosse Marco
in attesa con me della rutilante notte discotecara. Fortuna volle che Marco
decise di accompagnarmi (non l’ho mai ringraziato abbastanza per questo gesto)
in una corsa di 200 chilometri verso l’ospedale dove, nel frattempo, l’ambulanza
aveva portato mia madre. Arrivai dopo mezzanotte. Con la strana sensazione che
lei, nel frattempo, fosse già andata via. Fortunatamente non era così. Era
viva. Sorridente. Ironica. Come se quell’ictus che l’aveva colpita fosse
davvero niente rispetto a un raffreddore che potesse colpire me. Quella fu l’ultima
notte in cui ho pensato che, in fondo e fortunatamente, la mia mamma “highlander”
ce l’avesse fatta. Che quello che per i più era un gran casino, per lei fosse
un incidente di percorso. Che ci sarebbe stato un mese di convalescenza, forse
due, e poi l’avrei ritrovata come nuova. Non fu così. Era l’inizio della fine.
La sua fine. E l’inizio di una mia battaglia. Persa. Non perché dovessi lottare
insieme a lei. Quella era la parte facile. E neppure faticosa. Una persona non
ha idea di quanta energia, impensabile in condizioni normali, un organismo
umano riesca a mettere in campo quando succedono le tragedie. La lotta, quella persa,
era verso il mondo intorno. Verso i medici per cui mia madre era poco più che
un elemento statistico o il nome da inserire in calce a un protocollo
terapeutico. Per me era mia madre. Verso le strutture sanitarie per cui quando
c’è un’età anagrafica importante “la vita uno se l’è fatta e tanti saluti”. Per
me era mia madre. Verso la sufficienza annoiata del personale ospedaliero che,
avendone viste di tutti i colori, era adeguatamente munito di corazza emotiva.
Per me era mia madre. Da quel giorno, per tutti i giorni che sarebbero restati,
la battaglia l’avremmo dovuta combattere da soli. Mia madre con le preghiere e
con i voli pindarici in cui l’ospedale scompariva e lei era di nuovo a casa, affaccendata
tra le parole crociate e quei libri che, da sempre, divorava con gusto. Io, che
con le preghiere avevo poca dimestichezza, nel coltivare comunque la speranza.
Pensando che se Dio esiste, esiste per tutti, anche per quelli che, come me,
hanno smesso di cercarlo. E nei momenti di tregua eravamo noi due. Io e mia
madre. A parlare delle persone che avevamo vicino. A immaginare il futuro. E nel
futuro ci sarebbero stati viaggi (dimenticavo, mia madre oltre a libri e
cruciverba era un’instancabile viaggiatrice), vacanze, la Pasqua con il pranzo
tradizionale da organizzare con i parenti. Perché tutto non poteva che mettersi
per il meglio. Questo incidente sarebbe stato solo una delle tante “avventure
della vita”. E una volta passata avremmo pure avuto l’arroganza di riderci
sopra. E l’avremmo fatto con le zie (instancabili e inossidabili: degne e fiere
sorelle di mia madre), con gli amici, attorno a un tavolo esondante di
bottiglie e leccornie. Perché anche noi, come i soldati in guerra, avevamo
bisogno di aggrapparci a un “altrove possibile”, per poter dire a noi stessi
che c’era ancora una possibilità. Non c’era. Perché presto arrivò una polmonite.
Poi un attacco cardiaco. Ragione di più per volare lontano. Anche per non
pensare all’unica probabilità di sopravvivenza a cui nessuno dei due avrebbe
potuto abituarsi. Quella di una vita definibile tale solo da un punto di vista
meramente biologico o scientifico. Per me era mia madre. E io ero suo figlio.
Non più il figlio accondiscendente. Spesso ribelle. A volte anche assente, lontano,
evitante e mutante. E lei era mia madre. Non più quella nevrotica. Non la
leonessa capace di sbranare me o chiunque mettesse in discussione i suoi ferrei
principi, come di sciogliersi come burro in un falò sull’onda di una semplice
carezza. Eravamo cambiati in quei giorni. Eravamo tornati dalla stessa parte. Sono
cambiato in quei giorni. Tornavo a casa, la sera tardi. A volte andavo a letto
vestito, perché ero cosciente che la situazione non doveva, ma poteva
precipitare da un momento all’altro. E prima di andare a dormire, mentre mi
lavavo i denti davanti allo specchio, sorridevo all’idea di quei precedenti
quarant’anni passati a ripetermi come un mantra “non sarò mai come i miei
genitori”, e ritrovarmi poi a guardare riflessa nello specchio la sintesi
perfetta di entrambi. Poi arrivava il mattino e quello che non doveva succedere
non era successo. Poi le parole cominciarono a mancare. Ma non servivano più.
Bastavano gli occhi. Quei sorrisi bugiardi, quanto indispensabili, a dire che
“va tutto bene”, quando tutto stava precipitando. Ma era importante che fosse
così. Per me bastava appoggiare la testa sul suo cuscino. Vicino alla sua testa
che, col passare dei giorni, era diventata l’unica parte del suo corpo che le
assomigliasse ancora. Per sentire il suo respiro, l’ultimo resistente istinto
di vitalità. Per sentire il suo odore di pulito e cercare in qualche modo una
via di scampo da quel tanfo di burro rancido da stanza d’ospedale che, ancora
oggi, al solo pensiero mi porta lo stomaco in gola. E alla fine arrivò il
momento di salutarci. Chiaro e potente come il più impenetrabile dei misteri
che neppure la pachidermica arroganza umana è mai riuscita a sfiorare. Mia
madre si addormentò. E la mattina dopo, si concesse un cucchiaio di “alimento”
non meglio identificato. Poi, mentre io non c’ero, fece tre respiri profondi e
morì. Quando arrivai, lei era davvero andata via. Era già vestita, sdraiata su
un tavolo con un rosario tra le mani. Un involucro vuoto. Gli occhi erano
chiusi. La bocca anche, fissata in un sorriso insensato e inespressivo. Anche
quelle due rughe che si allungavano in parallelo sopra il naso a fiancheggiare
le sopracciglia erano sparite. Potevo ritrovare tutto ciò disegnato sul mio
viso. Mia madre era via. Non so dove, ma per sempre. E in quell’ultimo saluto
di un giorno prima c’era stata una implicita promessa. Che me la sarei cavata
da solo. Che avrei trovato la mia strada, aperta da quel definitivo saluto. Che
sarei stato libero. Che avrei finalmente accettato di diventare grande. Quella
promessa, come molte altre precedenti, l’ho mantenuta solo per una piccola
parte. Dato che c’ho messo tre anni. Solo per riuscire a raccontare l’inizio che
procede dalla fine.