Sunday, July 08, 2007

STROBO - capitolo 4

XANATHON

Svegliarsi la mattina. Appena il tempo di prendere coscienza del dolore che il sole infligge ai miei occhi, trafiggendoli fino ad arrivare al cervello. Appena il tempo di capire che oggi non è un buon giorno per andare al lavoro: meglio girarsi dall’altra parte e continuare a dormire. Pochi istanti e già squilla il telefono. Serve pochissimo tempo per decidere di non rispondere. Invano. Squilla un’altra volta. E poi ancora finché, esausto, rispondo. E’ l’ufficio. Quell’ufficio a cui comunico con la voce impastata che oggi non mi vedrà. Il mal di testa mi sta letteralmente uccidendo. Necessito di immediato aiuto chimico.
Tento di masturbarmi. Ci sono centinaia di film porno che scorrono nella mia mente. Roba da far venire anche un castrato. Comincio a sudare. Tento di arrivare al dunque ma è una fatica inutile. Spossato, mi abbandono esanime alle lenzuola madide. Pensando a un dopo che non vorrei mai arrivasse, e visto che volere è potere, resto li in silenzio, con gli occhi chiusi. Lascio fluttuare i rari pensieri. Perdo coscienza, proprio nel momento in cui tutto il mondo cerca di tornare alla concretezza. Meglio il sogno. Restare sospesi, agganciati a mille interrogativi vuoti. D’altra parte con una vita come la mia credo che tracciare la linea di confine tra realtà e astrazione sia assolutamente impossibile. Forse anche tutto quello che ho frammentariamente raccolto nel mio passato fin qui non è altro che sogno. Forse siamo già tutti morti ed è semplicemente un grande eterno sogno ciò che sopravvive a noi. Scrivo nell’aria. Le parole scorrono senza cercare necessariamente un senso. Le parole scorrono nell’aria che respiro, perché io in realtà sto dormendo e pertanto non le vedo. Apro gli occhi. Momento Xanax. Le parole scorrono più lentamente. Planare nel buio ansiolitico è dolce. Le parole sono fumo. Appena illuminate dalle lucine colorate di un aereo in fase di atterraggio. Manca qualcosa. Manca qualcuno. Momento Xanax numero due. Non manca più niente. Un brivido di orrore. Non è che magari mi capita una di quelle cose per cui ci si distacca dal corpo e si va a fare un giro mentre apparentemente la mia fisicità rimane assorta nella stanza? No, perché io sto aspettando e lo Xanax non fa di questi scherzi. Al limite mi frantumo come uno specchio e rifletto almeno una decina di realtà alternative. Le vite che vorrei e che ho. Cazzo, di nuovo il telefono. Alzo il ricevitore. E’ Andrea. Sarà una questione di lavoro o semplicemente vorrà reclamare quel pompino che mi ha regalato il lavoro e che non gli ho mai fatto? Cazzo perché mi chiama Troy? No, sto sognando di essere sveglio. Metto giù il ricevitore ma le parole vaganti diventano una sola.
Troytroytroytroysempretoryesolotroy. Lo vedo mentre tira su col naso e mi guarda con lo sguardo liquido. La sua immagine diventa più piccola, si moltiplica e ride senza emettere alcun rumore. Ok, sono al delirio. Una condizione che non mi spaventa. Mi diverte semmai, ma non mi spaventa affatto. Mi lascio sopraffare. Non bisogna mai resistere a se stessi: si fa una gran fatica e tanto poi ci si deve comunque arrendere. Tanto vale risparmiarsi la fatica e abbandonarsi. Per consolarci dei danni esistenziali c’è lo Xanax. Una volta c’era la coca ma se non sei più un ragazzino anche quella costa una fatica immane. Procurarsela, assumerla e sempre con l’ansia che qualcuno si accorga di qualcosa. Lo Xanax è decisamente più elegante, discreto e politicamente corretto. Certo, meno dinamico. Ma per quello basto io. Sogno o son desto? Sogno e son desto. Questo è l’incantesimo. Non fosse per quel rompicoglioni di Troy…Vabbè se vuole stare qui ci stia. Con tutte quelle stronze alcolizzate che hanno stazionato nel mio letto sarà mica un problema qualche francobollino ridanciano che svolazza per la stanza. Torniamo alle parole. Facciamo quel giochino schizopsicologico per cui mi dico una parola e nella mente ne trovo un’altra da associare. Una vola e una la scrivo sul muro. Troy. Follia. Libertà. Vuoto. Angoscia. Xanax. Corpo. Sangue. Rosso. Cazzo. Denaro. Libertà. Colori. Danza. Sopra la panca la capra danza, sotto la panca la capra crepa. Fingo di tornare alla realtà. Chiudo gli occhi. Respiro profondamente. Li riapro. Niente. Rifacciamo. Chiudo gli occhi, respiro profondamente e li riapro. Ecco. Ci siamo. Benvenuti al circo Barnum. La mia stanza è più disordinata di quanto potessi ricordare. E’ evidente che riesco ancora a sorprendermi. Bene, significa che sono ancora in questo mondo. Forse dovrei trovare qualcuno disponibile ad aiutarmi. Una protomamma di origine ucraina disponibile a metter ogni cosa al suo posto e trovare un posto per le cose che non hanno un posto senza fare troppo storie. Sia che si tratti di materiale pornografico da padrone sadico o boa di struzzo da puttana di periferia.
Il problema è che la gente che mette il culo in casa mia, uomo o donna che sia, è per farselo fare. Tralasciando il vicinato alcolico come unica eccezione. Vago nudo. E ho caldo anche se francamente mi è molto difficile capire se è per via dell’estate che sta arrivando o che è già finita da un pezzo. La logica, come già abbondantemente spiegato, non è del mio mondo. Lo è ancor meno quando mi sono appena svegliato.
Squilla il telefono. E questa volta è vero. Alzo il ricevitore . “Sono Andrea. Che ti succede?”. Cazzo adesso faccio pure i sogni premonitori. “No, non sto bene…ma sto lavorando da casa…si sto scrivendo”. In effetti di parole, qui, ne volano a stormi. “Cazzo, smettila con queste stronzate. In redazione praticamente non ti si vede più. Gli inserzionisti ti invitano alle conferenze stampa e tu ci vai soltanto per fare atto di presenza visto che, da mesi, cercano invano il loro marchio all’interno dei tuoi pezzi. Ripeto. Che cazzo ti sta succedendo?”. Non so cosa rispondere. “Cazzo, dico, cazzo! Ti rendi conto che sono ammalato? Mica racconto stronzate. E poi dimmi: ti ho mai lasciato col culo per terra? Non mi sembra!”. Cazzo! Anche pieno di Xanax potrei recitare l’Amleto. “Guarda, lasciamo perdere. Vedi di tornare il prima possibile e ne parliamo con calma. Però così non va bene. Questo atteggiamento non mi piace. Deve cambiare”. Click. Fine delle trasmissioni. Del suo fottuto lavoro potrei forse anche farne a meno. E’ più onesto vendere pompini in stazione. E se la moglie non gliela dà più, ammesso che lui la voglia, non è certo un problema mio. Musica. A palla. Volo d’angelo sul letto. Masturbazione forsennata, Xanax pemettendo. Si, lo permette. Il mio cazzo non mi tradisce davvero mai. Digrigno i denti e vengo. Orgasmo debole ma comunque missione compiuta.
Dovrei rivestirmi, ma anche non dovrei. E se anche dovessi non potrei. Sto troppo bene così. Stordito e frastornato mentre guardo il mio favoloso paese delle meraviglie e ricomincio a scrivere. Credo che se non fossi davvero pazzo mi sarei suicidato. Overdose di tanta vita banale. Di tanta gente banale. Di una famiglia così disastrosamente lacrimevole e banale. Di me stesso che invece posso essere davvero tutto tranne che banale.
Da quanto tempo non sento mia madre? Da sempre. Forse dal momento in cui mi ha vomitato nel mondo. Da quanto tempo non sento mio padre? Lui non ha nemmeno fatto quello sforzo, quindi da mai.
E fortunatamente entrambi hanno il buon gusto di aver smesso di curarsi di me e di cercare di sapere come sto. Perché sto benissimo. Soprattutto da quando non li ho più tra i coglioni. Troy e Finn? Anche loro da quando, almeno fisicamente e uno tecnicamente, sono fuori dai coglioni sto decisamente meglio. In fondo io sto bene solo con me stesso.
Mi ci vorrebbe una donna, ma per come sono messo ora sarei capace di sgozzarla all’istante. Metaforicamente si intende. Le donne fanno storie. Tutte, prima o poi, o fanno casino o ti affogano nei loro casini. Aspetto. Si meglio aspettare. Sono sempre così affannato in questi momenti…Per cosa poi. Guardo la parete di fronte a me. Uno specchio che mi rimanda l’immagine di mille specchi rotti. Ma non avevo detto che dovevo aspettare? Chiudo gli occhi. Ecco. Buio, finalmente. Illuminato da una luce fioca. Quella che le mie palpebre, per quanto serrate, non riescono a respingere. Un rumore. Quello del mio respiro. Un rumore. Tanti rumori. I suoni delle vita che scorre fuori da questa maledetta stanza. Le banali melodie della quotidianità della vita. Quella che io, almeno per oggi, ho deciso di lasciare fuori. Mica come Troy. Io la vita mica la rifiuto. Però la indosso, la cambio e la butto come un vestito. E oggi rimango nudo. Il blu. Ecco oggi sono blu. Con la faccia come illuminata da un televisore in bianco e nero di notte. Però è ancora mattina. Tarda mattinata. Il tempo, quello non sono ancora riuscito a piegarlo ai miei voleri. Bene. Che stia fuori dalla porta di casa pure lui. Sento. Sempre meno. Forse ho esagerato con i momenti Xanax. Ma sono momenti e anche quelli passano. E si perdono nell’infinito di un cielo-discarica. I miei occhi restano chiusi, mentre abbandonato sul grande letto disfatto da un’eternità ascolto la mia pelle. Scorro la mia faccia umida di sudore. Non è che mi senta molto bene. Suonano alla porta. Sarè qualche rompicoglioni. Sicuramente è un rompicoglioni. Sento un vociare assurdo come è assurda tutta questa storia. Poi passi sulle scale. Un secondo di silenzio e il campanello suona di nuovo. Cazzo, ma perché non se ne vanno? Perché non mi lasciano in pace? Un secondo di silenzio. Poi un rumore che sarebbe famigliare se fosse prodotto da un mio gesto. Non lo è. E’ una chiave che si introduce nella serratura. Nella serratura di casa mia. Mi scappa una bestemmia sottovoce. Che fare? Sembra che la chiave non funzioni. No, funziona eccome. La porta si apre con un sinistro cigolio. Non mi sento sicuro. Passo velocemente in rassegna tutte le persone che sono in possesso delle chiavi di casa mia ma non mi vengono molte idee. Le hanno avute in tanti nel passato. Mi avvolgo nel lenzuolo e rapidamente mi rinchiudo nello stanzino delle scope accanto al bagno. Sento i passi. Passi di donna. Anzi di donne, visto che il vociare è decisamente animato. Cazzo, ho i brividi. Chi mi sta cercando e perché? Perché proprio io che ho passato la mia esistenza a pulire ogni traccia della mia stessa esistenza?
Mi sento come sotto l’effetto negativo di un acido, ma non mi faccio acidi dalle vacanze inglesi della mia adolescenza. Tento di ascoltare, ma ho paura e mi ritraggo. Le parole sono comunque concitate. Interrogative. Potrei fare un’uscita di scena avvolto nel mantello bianco come un filosofo dell’antica Grecia. No, non è questo il momento di scherzare. I passi si allontanano e le voci diventano anche più oscure e impastate. Sento l’odore dolciastro dei detersivi. I passi ritornano. Vicini. Sento altri rumori. Sedie che si spostano. Finestre che si aprono. “Dov’è?” E’ l’unica frase, ricorrente e rimbombante da una parete all’altra. Si moltiplica in una sinistra armonia. Poi parole concitate. Una serie di punti esclamativi a sottolineare le mancate risposte di mille interrogativi.
Chi mi sta processando? Chi mi sta cercando? Cha cosa stanno cercando? In silenzio mi alzo leggermente per aprire la piccola finestra del ripostiglio. Manca l’aria e quella poca che c’è è contaminata dall’odore insostenibile. Nuove voci si aggiungono alle precedenti. Ora ci saranno almeno cinque persone che tacchettano sul parquet. Fortunatamente, finora, a nessuno di loro è venuto in mente di aprire la porta del ripostiglio. D’altra parte le persone sono abituate ad ignorare i luoghi più ovvi in cui trovare ciò che cercano. Che gran casino. Mi stanno mettendo sottosopra la casa. E io sto rinchiuso senza sapere perché, nè avere la forza di ribellarmi.
E’ la prima volta che, nella mia vita, mi sento così indifeso e debole. E non è solo per via dello Xanax. Ne sono certo. Rumore di sacchi. Sordi tonfi di oggetti che cadono. Dio mio, mi stanno derubando. Ma di che? In casa mia non vi è nulla di così prezioso da poter essere sottratto.
E poi nessun ladro, perlomeno per quel che si vede alla televisione, si muoverebbe in modo così sfacciato e sonoro. I ladri arrivano di notte. Si muovono lievi e veloci. Sono come zanzare. Mica fanno il casino di una balera.
Cazzocazzocazzo!
Forse dovrei fuggire. O almeno provarci. Sono sufficientemente sottile per passare dalla piccola finestra. Quella che dà sulla terrazza condominiale. Si, ma poi dove vado? Non sono l’uomo ragno. Il rumore dei tacchi sul parquet continua e così le voci. Si, devo proprio scappare. Anche se non so ancora perché e tantomeno da chi.
Chiudo gli occhi e cerco di riordinare le idee. Un’operazione che non mi è mai riuscita nel corso di una vita intera e che, ora, mi sembra quantomeno improba. Si. Devo proprio fuggire. Mi lego un lembo del lenzuolo alla caviglia. In silenzio. Senza nessun rumore diverso da quello del mio respiro un po’ affannoso. Sistemo il fustino del detersivo vicino alla lavatrice. Salgo col mio strascico sul fustino. Poi sulla lavatrice. Mi affaccio alla finestra e cerco di respirare aria fresca. Cerco anche di aprire gli occhi, ma i lampi di luce mi frammentano lo sguardo e mi fanno male come punte di spilli lanciate dritte contro la mia pupilla di specchi frantumati. Li richiudo subito e con le mani mi sollevo per varcare la linea di confine con il mondo di fuori. Ecco. Ci sono riuscito. Riapro gli occhi un secondo per rendermi conto delle distanze. Li richiudo subito. Mi siedo e aspetto. Passano alcuni minuti, non saprei dire quanti. Il mio respiro si fa meno convulso. I rumori si attenuano. Non sento più i passi che tacchettano sul mio cervello. Non è detto che siano scomparsi. Semplicemente non li sento più. Lasciano spazio a lontani rumori di strada e al vento che schiaffeggia il mio volto. Il vento. Così rassicurante. Potente quasi da trascinarmi via. Lo seguo. Alzo le mani dritte sulla testa in segno di resa, mentre le folate incespicano fra le mie dita. Seguo il vento. Dal tetto della mia vita. Mi alzo in piedi e lascio che il sudario bianco delle mie paure scivoli via. Portato via dall'aria, che porta via i miei pensieri e ad ogni pensiero una parte di me. Immagino ciò che non posso vedere. Immagino che forse ogni vita è immaginaria. Viviamo una dimensione che esiste solo nella nostra testa. E ognuno vive nella propria. Forse è per questo che non ci incontra mai. Forse è per questo che, alla fine esistiamo solo per noi stessi e pertanto cessiamo di esistere. Se solo ascoltassimo di più il vento. Lui si, che è assoluto. Io lo ascolto e mi tendo verso l’alto. Perché con lui sto andando via. Perché, leggero come sono, anche io divento vento e mi dissolvo.