Wednesday, May 24, 2006

LE SCAPOLE ALATE DI FINN - capitolo 2

GLI OCCHI DI MIA MADRE

Il mio sodalizio con Troy è, in pratica, terminato al compimento del mio diciottesimo compleanno. Una data che ha tracciato una vera e propria linea di confine. Mi piacerebbe poter dire che sono andato via di casa se ci fosse un luogo fisico che io avessi mai riconosciuto come casa mia. Spesso non è stato così. Con mia madre abitavo le stravaganti dimore dei suoi compagni in un va e vieni di uomini che duravano il tempo che duravano. Forse il periodo a casa di Troy è stato il più complicato. Non ho mai capito come mia madre potesse provare un sentimento di qualsiasi genere per un uomo che viveva narcotizzato da un amore interrotto. Annullato nell’abbandono della moglie che era andata via. Lontano e per non tornare più. Un uomo che aveva lasciato a mia madre la facoltà di rivoltargli la casa per farne, definitivamente, il luogo della solitudine. Il luogo dell’assenza. Forse per questo, nonostante la mia tenera età, ho sempre faticato a riconoscere l’ombra di una figura paterna nel padre di Troy. Forse per questo mia madre non ha mai trovato la benché minima corrispondenza affettiva né in Troy, né in suo padre. Ricordo i silenzi. Il rito serale di una cena con i suoi occhi bassi sul piatto. Ricordo la sua insofferenza al fardello delle convenzioni sociali borghesi. Ricordo qualche raro sguardo implorante dritto agli occhi dell’avvocato che inevitabilmente si schiantava contro il muro dell’indifferenza. Ricordo il suo pianto silenzioso e dimesso. Fonte di enorme sconcerto per un bambino così poco abituato alle perversioni dell’amore inventato.
Mia madre non è mai stata una donna debole. Altrimenti non avrebbe mai potuto sopravvivere alla sequela infinita di sconfitte che hanno segnato la sua vita intera. Come me ha l’orgoglio inossidabile della sua terra. Per questo, l’assenza di un luogo fisico che potessimo riconoscere come casa nostra non era che un fatto marginale. Il nostro rifugio erano i nostri occhi. I suoi erano verdi, ma per me erano soltanto due piccoli laghi neri, per via del daltonismo. Mi piaceva però, mentre prendevo sonno, immaginarli di colori diversi, come se accogliessero le mie emozioni mediandole con i suoi stati d’animo. Ecco quindi che diventavano celesti e glaciali, quando mi sforzavo di capire senza riuscirci. Prendevano il colore della terra quando sentivo che la terra mi mancava sotto i piedi, diventavano piccoli e raggianti quando stava semplicemente ad osservarmi e io fingevo di giocare con lei per sentirla più mia. Erano laghi neri quando si nascondevano dietro la porta del bagno per nascondere le stanchezze della vita.
Mia madre, come me, era di poche parole perché in un suo sguardo c’era tutto ciò che era dato sapere. E se c’era qualcosa che doveva restare nascosto bastava che lei abbassasse gli occhi e io capivo. Io ero nato in una comune del Sussex e anche se a nove anni ero precipitato in quella grossa menzogna milanese quale era la casa di Troy, della mia infanzia avevo conservato il festoso e anarchico entusiasmo di chi sognava di cambiare il mondo con il potere della fantasia, della cultura e delle idee. Stavo male quindi nel vedere quel mondo che, negli occhi di mia madre, andava svanendo giorno dopo giorno. Cazzo, ero davvero troppo giovane per le disillusioni. Non riuscivo ad accettare la dimessa staticità dell’esile corpo di mia madre che fino a poco tempo prima faceva vibrare l’aria ballando fino a tarda notte sotto la pioggia del Sussex.
Non l’ho più vista ballare. Non l’ho più vista ridere a squarciagola, talvolta ubriaca nelle sere d’estate. Di lei mi erano rimasti gli occhi, solo quelli non erano cambiato, solo quelli anche dopo la fuoriuscita dalla casa di Troy erano rimasti immutati. Solo quelli anche nei periodi successivi, sempre più brevi, in cui mia madre aveva un compagno e in quelli, sempre più lunghi in cui rimaneva da sola, erano casa mia.
In caso contrario non so proprio come avrei potuto salvarmi dalla chiassosa spirale egocentrica di Troy. Avevamo più o meno la stessa età, ma mentre io cercavo di crescere lui era come quei serpenti in cui si faticherebbe a riconoscere un cucciolo. Nato solo e per essere solo. Mutevole nella sua tracotante arroganza di bambino disturbato. Non sopportava mia madre (ma in realtà non sopportava nessuna donna che non fosse sua madre o quella sua sorellina che venerava come una madonna). Non mancava di dare segni di evidente fastidio ogni qualvolta sul suo percorso incontrava qualcosa che a lui mancava. Come l’affetto. E allora vi si accaniva contro, tentava di avvelenare ogni sentimento. Tuttavia ogni volta che si uccide qualcuno, a una prima fugace euforia, subentra la desolazione di non avere qualcuno contro cui combattere.
Troy giocava sporco. Tentava di contaminare in ogni modo la mia innocenza. Non voleva amarmi: gli interessava unicamente essere amato da me, scippandomi un sentimento nel quale alla fine restava lui steso invischiato senza via d’uscita. Perché io, solo apparentemente ero fragile e corruttibile. Perché io, avevo mia madre.
Ricordo il giorno, in piena adolescenza in cui lui mi mostrò una rivista pornografica. Io mi eccitai, come era normale che fosse. Non era certo la prima volta che accadeva. Presto cominciammo a toccarci. Prima lentamente poi accelerando fino a sentire l’orgasmo che esplode in gola e venire. Io non ci trovavo niente di speciale: stavo semplicemente scoprendo i meccanismi del mio corpo. Rimasi quindi stupito quando negli occhi di Troy avvertii un’odiosa espressione trionfante. Probabilmente pensava di avermi sottratto l’anima. Dio mio, era solo una sega! Ritrovai puntualmente quella stessa espressione ogni volta che i miei rapporti con le ragazze finivano. A quell’età era normale. Era tutta una sperimentazione. Ogni parvenza d’amore era drammaticamente totalizzante, e poi, ci si svegliava una mattina e non restava niente. Per Troy ogni titolo di coda dei miei rapporti sentimentali preludeva al suo personalissimo sequel. Dio, quanto era assurda questa competizione. E quanto doveva essere faticoso per lui questo gran darsi da fare per rincorrere i miei amori adolescenziali. Per ritrovarsi, come me più solo che mai. Credo che sia una prerogativa degli adolescenti il sentirsi soli. Noi certamente non sfuggivamo a questa regola.

Pochi anni più tardi partimmo insieme per una vacanza a Londra, da mia zia. Insieme a noi c’era Roberta, la cugina. Una ragazza triste: portava anche lei il segno maledetto della famiglia di Troy. Avevamo l’eccitazione della prima volta. La prima volta da soli, senza alcun tipo di controllo. Devo ammettere che nella vita di tutti giorni non è che avessimo grandi vincoli. Ma trovarsi in un Paese nuovo, padroni della nostra vita era sicuramente un’esperienza eccitante. Londra poi negli anni ottanta era un vero crogiolo di vitalità. Notti forsennate, stravaganze di ogni genere, i primi contatti con la droga. Roberta era così distante e fredda. Era tuttavia così drammaticamente sola e le solitudini trovano molto facilmente un punto d’incontro. Giorno dopo giorno le distanze si accorciavano. Prima un timido sguardo, poi qualche bacio in un crescendo di emozioni e ben presto, senza neppure che ce ne rendessimo conto, eravamo pronti a scambiarci la pelle. D’altronde fra adolescenti l’amore è sempre così facile e naturale. Non segue strategie, non risponde a nessuna regola. E proprio perché indifferente alle regole l’amore dei ragazzi è quanto di più fragile e delicato ci possa essere. La mia unione con Roberta inevitabilmente proiettava Troy in uno spazio oscuro e disperato. Lui, che le strategie sapeva già usarle, approfittò di una notte allucinata per appropriarsi di ciò che era mio. Si infilò nel mio, o meglio nel nostro letto, per dare inizio a una maratona sessuale a tre. Una corsa nel buio per schiantarci tutti insieme contro quel muro di assurdità che, nell’oscurità, nessuno di noi era in grado di valutare. Per la prima volta negli occhi di Troy non avvertii lo stupido orgoglio del vincitore. Tutti e tre portavamo il segno della sconfitta vigliacca. Ma nello sguardo di Troy c’era qualcosa in più. C’era il primo segno di una lenta decadenza che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Mi sono sempre chiesto, anche se non ho mai avuto il coraggio ci domandarlo direttamente, se lui davvero fosse così incosciente.
Roberta scomparve dalla mia vita così come da quella di Troy, se non fosse per una piccola serie di ripicche gratuite previste dal protocollo della borghesia. Loro sempre più isolati, io sempre più introspettivo e confortato dagli occhi di mia madre. Occhi di cui ricordo le lacrime, sempre più frequenti e disperate. Un pianto soffocato tra impercettibili sussulti della gola e nascosto dietro una porta. Un’immagine, la sola, che mi accompagna da tutta una vita.
Non riuscirò mai a dimenticare la sua figura statica e pietrificata mentre, a diciotto anni preparavo la valigia per andarmene da casa. Assestai le mie cose con calma. Era un momento importante, di grande euforia per me che finalmente conquistavo il mio status di uomo. Le diedi un bacio fugace per non protrarre oltre l’accettabile l’agonia della separazione e chiusi la porta dietro le mie spalle. Lasciandola li, mia madre, nel suo pianto sommesso. Un pianto lento e infinito, che nonostante si facesse più lontano, ad ogni mio passo sembrava volermi rincorrere. Faceva vibrare l’aria e mi stordiva. E’ strano scoprire che i momenti più naturali della vita sono quelli che provocano più dolore. E’ crudele scoprire che i momenti più naturali della vita sono proprio le assenze. Così ineluttabili e definitive. Sono passati diciassette anni. I primi anni della mia vita da single frequentavo mia madre abbastanza spesso. D’altra parte vivevamo nella stessa città ed era quindi più che normale che almeno parte del fine settimana lo passassi con lei. Talvolta mi accompagnava a comprare i vestiti che io, se non altro per il mio daltonismo, non ero assolutamente in grado di scegliere. Altre volte mi aiutava a scegliere le cose per la casa, le risposte a bisogni che io ignoravo totalmente. Risposte che puntualmente restavano inscatolate e accatastate qua e là nel mio modesto appartamento. Spesso, più semplicemente, lasciavamo scorrere il tempo in lunghe passeggiate. Lente, leggere e senza pensieri. Camminate che si concludevano sempre sotto il portone di casa mia. Quella casa, la stessa in cui vivo ora, in cui mia madre non ha mai voluto entrare. Quella casa in cui, forse, io non l’ho mai fatta entrare per la paura che avvertisse la puzza della mia solitudine. Anche in quelle occasioni c’era un portone che si chiudeva e qualcuno che rimaneva fuori con gli occhi pieni di lacrime.
Successivamente i nostri incontri si fecero sempre più rari. Talvolta perché la mia casa e la mia vita erano occupate da una donna. Una donna che sceglieva i miei vestiti e che mi accudiva. Una donna che riempiva il mio letto e che mi stava di fronte seduta al tavolo per la cena. Una donna che condivideva con me ogni istante del mio tempo. Una donna che se ne andava. Allora ero io a versare lacrime dietro una porta che si chiudeva. Allora ero io a riprendere contatto con mia madre. E’ incredibile quanto possa essere opportunistico il rapporto tra madre e figlio. E’ incredibile come solo il vuoto ci porti la consapevolezza delle persone che amiamo.
Tuttavia in questo continuo separarsi e ritrovarsi qualcosa finiva perduto. Gli incontri divenivano sempre più brevi e convenzionali. Non parlavamo quasi più. Non uscivamo più. Restava un dialogo fatto di sguardi. Qualche domanda sullo stato di salute e in pochi minuti lasciavo quella che una volta era stata casa mia. La porta ancora una volta si richiudeva dietro le mie spalle. I miei passi lungo le scale ancora una volta venivano rincorsi dal pianto di mia madre.
Oggi gli incontri sono più che mai rarefatti. Anche se non c’è nessuno che condivida la mia vita. Anche se sono solo. Ci vediamo più o meno una volta al mese. Lo stretto necessario per mantenere vivo un legame che sempre più, si nutre di assenze. Forse nell’angolo più remoto della nostra anima siamo riluttanti ad accettare i segni del tempo e i cambiamenti che comporta. Se prima ero io ad avere bisogno di mia madre, a cercare in lei le risposte alle mie insicurezze e il nutrimento della mia voglia di crescere, ora, che sono un uomo, è lei che ha bisogno del mio sostegno per abbandonarsi al tempo che passa. E questo, per due persone come noi è davvero difficile da accettare.
E’ preferibile continuare a portare dentro di se ciò che è stato, pensare che non è mai cambiato e che forse non cambierà mai. Faccio fatica a smettere di essere figlio. Allo stesso modo non ho alcun diritto di costringere mia madre ad entrare in uno spazio interiore, il mio, in cui si perderebbe per il semplice fatto che non le appartiene più.

O forse, nell’avanzare della mia vita, mi è difficile sopportare la violenza di quelle lacrime silenziose dietro una porta che si chiude.

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