Tuesday, September 05, 2006

LE SCAPOLE ALATE DI FINN - capitolo 5

OGNI UOMO E' UN'ISOLA

All’ombra dei miei diciotto anni avevo finalmente spezzato i dolorosi legami con la vita inventata del dottore, degli sciamani e delle ali d’angelo posticce. Avevo una casa che, per quanto modesta, era la mia. Avevo una vita da riprendere tra le mani. Avevo il tempo di essere ciò che volevo. Avevo bisogno di essere solo e di sentirmi solo. Per quasi due anni la mia vita fu un viaggio isolato. Uscivo poco e, a parte le lunghe passeggiate con mia madre, impiegavo ogni singolo secondo del mio tempo in silenzio, dividendomi tra gli studi e lo studio del mio io.

Sulla soglia dei vent’anni ho ricominciato a rimettermi in gioco. Un po’ per scelta, un po’ per necessità. Il mio ingresso nel mondo universitario in qualche modo mi costringeva ad una inevitabile vita di comunità. Molte cose erano cambiate. Innanzitutto Troy, sempre più sospeso fra la realtà e il suo Olimpo oppiaceo. Mia madre, alla deriva del suo oceano di solitudine. Soprattutto io, che prendevo le distanze da tutto questo mondo che sembrava sprofondare in un buco nero. L’incontro con Rebecca fu un fulmine a ciel sereno. Alle dieci del mattino, con tutta la sorprendente potenza di quelle casualità che cambiano la vita. Qualche rapida occhiata nel corridoio dell’università bastò ad accendere la complicità necessaria per farci decidere che in fondo saltare una lezione non era poi quel gran delitto. Un discreto inseguimento e pochi istanti dopo ci trovammo a consumare il rituale della seduzione davanti a un caffè fumante. Rebecca era austera e altezzosa. I suoi lineamenti spigolosi ne rivelavano un’origine alto borghese sapientemente esibita e pienamente accettata. Al contrario di me, che nella borghesia ero precipitato mio malgrado come in una gabbia da cui mi risultava arduo uscire. Seppi in seguito che prima di conoscermi, un anno prima, era stata la fidanzata – se così si può dire - di Troy.

Rebecca era dura come un diamante, con quella sicurezza di se e quella misurata arroganza che un po’ ho sempre invidiato a coloro che, come lei, nella vita non avevano mai dovuto sbattersi più di tanto. Fu la nostra complementarietà ad unirci. L’attrazione irrefrenabile di due poli opposti. Dividendo la nostra storia tra i saloni così chiassosamente sfarzosi dell’appartamento dei suoi genitori e l’austerità monastica di casa mia. Da subito la comunicazione verbale fu ridotta al minimo. Giocavamo con i silenzi, parlavamo con gli occhi e con l’odore dei nostri corpi. Per questo, il sesso nella nostra storia fu il protagonista assoluto. Nulla di particolarmente morboso, solo la semplice voglia di darsi. Succedeva spesso che l’urgenza di abbandonarci all’istinto ci faceva correre al primo posto disponibile, qualunque fosse, per poterci spogliare e toccarci. Toccarci e lasciare crescere piano piano la marea del piacere fino a sentirlo esplodere in gola. Ogni volta in modo sempre più totale, per via della sempre maggiore confidenza acquisita dai nostri corpi nel reciproco contatto. Nudi dentro e senza il benché minimo pudore. Mutanti come le nostre emozioni, talvolta traboccanti di potenza sovrumana, più spesso abbandonate all’umana disperazione. Era la vita che cresceva dentro di noi. Fino al giorno in cui la vita cominciò a crescere nel ventre di Rebecca. Un brusco precipitare nella borghesia da cui tentavamo di nasconderci. Una caduta violenta in quella borghesia che impone le protocollari scelte del buon senso. Da una parte l’ipotesi di una sciagurata famiglia, dall’altra quella della eliminazione alla radice dell’ipotesi. In mezzo niente se non la fine del gioco dell’istinto. Io avevo già scelto l’ipotesi, i genitori di Rebecca, nel frattempo, avevano optato per la direzione opposta. La più radicale. La vidi la sera prima che lei entrasse in ospedale. Per l’ultima volta. Da allora le fu impedito ogni contatto con me, e per escludere ogni possibilità di incontro casuale fu spedita immediatamente a New York con un biglietto di sola andata. Non ho saputo perdonarla. In fondo ci trovavamo già in un’età in cui potevamo già decidere da soli (cosa che peraltro io avevo più o meno sempre fatto). Il cosiddetto sano buon senso ha avuto il sopravvento su ogni sentimento.

Mai più, da allora, sono riuscito a fidarmi completamente di una donna. Il tempo mi ha dato ragione. Le donne in fondo, rimarranno sempre un universo misterioso per noi uomini, nella loro voglia così urgente di essere amate e nella loro repentina capacità di smettere di amare senza troppe spiegazioni. Dopo Rebecca quindi ci furono altre compagne di poche settimane. Momenti aggrappati a un bisogno più che a una scelta. D’altra parte ogni storia che finiva toglieva un po’ della mia disponibilità a mettermi in gioco. Allo stesso tempo mi riusciva impossibile accettare il tiepido coinvolgimento che - come ho scoperto più tardi – è la ricetta della stabilità della vita di coppia. Nelle mie vene scorre sangue caldo come lava.

Io non sono Troy.

Se inizialmente il tempo che intercorreva tra un’infatuazione e l’altra era relativamente breve, col passare degli anni si dilatava. Fino a lasciare enormi vuoti di solitudine. Un dolore sottile e continuo, come una leggera artrosi a cui è più facile abituarsi che trovare una via d’uscita. Le donne mi interessavano sempre meno e, di conseguenza, sempre meno loro erano interessate a me. D’altra parte la mia modalità di propormi diventava radicalmente priva di ogni fascino. Sfuggivo metodicamente ad ogni regola di seduzione. A partire dal mio aspetto fisico. Curato quel tanto che bastava per poter vivere marginalmente all’interno della società civile. Continuavo a dirmi che ci sarebbe voluto tempo. Il problema è che a continuare a scavare dentro se stessi alla fine non si trova più niente. Il problema è che quando si prende una strada e si va troppo lontano si trova se stessi ma si perde il mondo. E a trent’anni è davvero troppo presto. Nella mia anima cominciavano a farsi largo quegli assurdi fantasmi che mi toglievano il sonno e che ancora oggi non me l'hanno restituito. Decisi quindi di ritornare nel mondo. Non fu facile e forse neppure ci riuscii. Per almeno sei mesi mi trovai a vagare in una vita sociale ormai estranea come un cane che aveva smarrito la via di casa. Lunghe e noiose serate a vagare tra conversazioni (spesso più vuote di me) in cui ricorreva puntualmente e senza possibilità di tregua il fantasma di Troy. Troy incatenato dal suo incubo televisivo, Troy paranoico, Troy schiavo della cocaina. Ogni ragazza che tentavo di avvicinare mi riportava inesorabilmente a lui. Ogni ragazza che mi riportava a lui veniva pertanto prontamente allontanata. Nel frattempo la mia vista andava peggiorando. Perdevo il senso delle sfumature, soprattutto quando mi trovavo in mezzo ad altra gente. Recuperavo i miei grigi solo quando tornavo nella solitudine alla ricerca di un riposo che non arrivava mai. Una sorta di difesa dal mondo esterno che probabilmente non meritava più di essere guardato oltre la superficie. I miei occhi avevano perso ogni espressione all’esterno. Tuttavia, non appena chiudevo la porta di casa dietro le mie spalle, quegli stessi occhi tornavano a riempirsi di lacrime commosse. Ogni volta che, come un soldato sconfitto, sprofondavo nel burrone della mia anima per riabbracciare la mia immobile realtà. Una realtà rassicurante, vuota e – tuttavia – mia. Oggi celo lo sguardo e il disagio dietro un paio di occhiali scuri che ripongo con ossessiva dovizia a ogni mio rientro. Con la stessa ossessiva puntualità, ogni sera, mi dico che domani smetterò di girare intorno alla mia vita. In quel preciso istante il mio pensiero vola verso chi, da tutta una vita, gira su stesso. In quel preciso istante penso a lei, mia madre, che probabilmente sta ancora piangendo, come me, dietro una porta chiusa.

1 Comments:

Anonymous Anonymous said...

No, Finn so io! Per cui, tu chi sei?

5:51 AM  

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