Monday, February 14, 2011

INTERSEZIONE 0 - Io sono prima che tutto sia già accaduto.

Io sono l'uomo confuso, il traditore tradito, il mercenario sconfitto, il complemento oggettivo, la parola mancata e quella rimpianta, la lacrima negata, il sorriso di convenienza. La seconda opportunità e quella mancata, la matita spuntata e la carta bruciata, il bagatto impazzito nella terra naufragata, la punta di diamante che taglia il vetro rotto, il ladro nella casa vuota, l'uomo di poche parole e quello delle parole mangiate. Io sono l'uomo rifiutato, ammanettato, contaminato. Io sono l'ingannatore, il retroflessore lussato, la nebbia nel fango. Io sono la terra che collassa, l'uomo claudicante, l'icona in fiamme e il bambino negato. Sono lo zero compiuto. Io sono solo. E da questo comincio.

Sono sopratutto colui che non deve essere nominato, la regola che conferma l'eccezione, il tempo non ancora trascorso, qualcosa che non ti ho detto, la tredicesima luna, la scelta che non mi è data, il paradosso dei gemelli, il buio che mi inghiotte, il raggio verde, il commento inopportuno, la scomodità nei propri abiti, l'insostenibile leggerezza (dell'avere), il prezzemolo sul canino.

Io sono Matteo e sono paralizzato nell'attesa di qualcosa che non so neppure se ancora esiste. Io sono paralizzato nel mio letto, nella mia notte voragine, e non c'è sonno, non c'è veglia. Ma solo sudore e buia attesa. E respiro corto e un domani che se non arrivasse sarebbe anche meglio. Perchè non sono così forte da reggere il sole.

Monday, February 07, 2011

ATTENZIONE ALLA PUTTANA SANTA

La domenica sera non è mai granchè. Si sprofonda nella noia che sprofonda nei divani. Si guarda la tv che la domenica riesce a dare il peggio di se e, in replica, il peggio della settimana. Nei casi migliori si dorme. In quelli così così, si segue le trasmissioni. Saltellando qua e la, come cercatori d’oro nel giardino di casa, dove l’unica cosa metallica sepolta è qualche tappo di birra. Di questo parliamo. Di un programma “tappo di birra”. Si chiama Kalispera e viene trasmesso quasi a ciclo continuo su Mediaset Plus. Lo conduce Alfonso Signorini in uno studio con luci soffuse, due poltrone con cane accucciato ai piedi e ritratto di Maria Callas sulla parete di fondo (tanto per restare nei “luoghi comuni”). Messa così è il programma ideale. Per quella fascia oraria. Un’intervista ad un’attrice ipertettuta e l’effetto ipnoinduttore è garantito alla prima domanda. In effetti anche ieri sera la fatalona c’era. Ma non una qualunque. O meglio, una delle tante qualunque che, da un momento all’altro non sono più tali. Karima, di anni 17, che diventano 18 e poi addirittura 25. Un’autentica maga della macchina del tempo. E racconta la sua storia. Non è una storia inedita. Karima nasce in Marocco ma vive in Sicilia, è in perenne conflitto con il padre che la mena per le sue abitudini poco in linea con la tradizione islamica, e quindi scappa di casa. Vive di espedienti. Talvolta ruba. Cerca di sopravvivere in qualche modo, come purtroppo succede a molte ragazze che cercano di fuggire a un inferno conosciuto per approdare in un paradiso visto in TV (ma che tanto paradiso alla fine non è). Per sopravvivere Karima inventa una seconda identità. E’ maggiorenne, ha una famiglia egiziana e cerca di entrare nel mondo dello spettacolo. Si chiamerà Ruby.

Fine primo tempo.

Fine di un’intervista raccontata con il rigore del grande giornalismo d’inchiesta, non fosse per Signorini più cane più ritratto della Callas. Con sguardi pittorescamente intensi. Sempre sul filo di una commozione puntualmente catturata dall’abile alternanza di primi piani.

Arriva la pubblicità.

Passa la pubblicità.

Ritorna Ruby. Che è una ragazza bella, incredibilmente intelligente e con una padronanza della lingua italiana da fare vergognare molte delle sue coetanee. E’ evidente che ha studiato molto. Per quella intervista intendo. Ricomincia a raccontare. E’ una ragazza distrutta. Perché a Milano ha lavorato in bar e ristoranti dove tutti le palpavano il culo. Perché a un certo punto si guadagnava il pane facendo la cubista in un mondo dove – lo apprendo ora – un’italiana che balla seminuda sul cubo è una ballerina professionista, una straniera è una troia. Mah…Io onestamente ho sentito parlare delle cubiste sempre come cubiste senza distinzione di razza, religione o pensiero politico. Comunque, non è questo il punto.

La povera Ruby, a fare la prostituta (ma non la troia, per l’amor di Dio), ci prova. Viene introdotta da un’amica nel “giro” e viene inviata da un cliente. Che alloggia al “Four Seasons”, che è giovane, bello e ricco tanto da darle mille Euro per un’ora. Alla faccia di chi trovava poco probabile la trama di Pretty Woman.

Lei si spoglia. Lui prova a toccarla. Lei urla. Lui capisce che è la prima volta. E come un fratello maggiore la prega di andare via. Di non fare quel mestiere. E le da mille Euro. Le favole a volte finiscono bene. Mica solo nei film. E quindi la nostra irrequieta ragazza nordafricana continua sul cubo. O “partecipa” a cene. Perché, lo si apprende in quel momento, le belle ragazze possono anche fare le “commensali a pagamento”. Ed è proprio ad una cena che un’amica la invita. Una cena di lavoro. Ma quando Ruby arriva sotto casa capisce che non si tratta di una casa qualunque. E’ una villona coi fiocchi. Quella del Presidente. E lei, cenerentola del terzo millennio, accede a corte. Alla cena c’è anche il direttore di Retequattro più altre belle ragazze. Tutte brave ragazze, s’intende. E infatti subito dopo cena corrono a casa. Ruby ha un regalo del Presidente. Settemila Euro. Senza nessuna pretesa, come se fossero storie di tutti i giorni. E Ruby frequenta nuovamente la casa del Signor B., sempre in quell’ambito di ordinaria e normalissima amicizia. Come succede spesso fra i potentissimi 74enni impotenti e le sedicenni maggiorenni. Che a suon di settemila Euro mangiano un pasto caldo decente e si possono permettere qualche capriccetto.

Però qui, in questo punto, la sceneggiatura comincia a scricchiolare. Sembra, ma la colpa è della magistratura, che la sprovveduta Cenerentola, una volta uscita dalla casa abbia contattato un team di avvocati. Tutte le povere ragazze extracomunitarie hanno un team di avvocati, casomai qualcuno tentasse di fregarle. Vuole vendere il suo silenzio (sui piatti sporchi o sbeccati visto che non è successo nulla di scabroso) a 5milioni di Euro. E’ vero? Non è vero? Non si sa. Ma Ruby adesso vuole essere lasciata in pace. Non ha fatto nulla ed è perseguitata. Su Facebook la insultano. Per strada la seguono. Lei sogna che tutto finisca. Sogna una famiglia. Sogna di tornare ad essere una ragazza qualunque. E per realizzare questo, giustamente rilascia interviste, va in televisione e fa serate in discoteca. Curioso modo di proteggere la privacy. Anche per la TV. E quindi Alfonso chiama immediatamente il “fidanzato” in scena. Lui è titubante ma poi, discreto, si avvicina con un’aria talmente perbene da sembrare un serial killer. I due si abbracciano. Alfonso augura “buona vita” a entrambi. Li saluta sulle note di “Mon coeur s’ouvre a ta voix” (versione Callas). L’amore trionfa tra i bianchi tutù delle ballerine e tutti possiamo andare a dormire sereni. Perché sappiamo la verità. Raccontata in un italiano impeccabile da una ragazza marocchina, maggiorenne, consapevole e coscienziosa. Che parla di un gentiluomo che, come quei preti di periferia, va per le strade, raccoglie le pecorelle smarrite, le sfama e le rende ricche e famose (a volte anche ministre). Sappiamo di una ragazza tacciata da un’odiosa Italia razzista di essere una troia. Lei, che è un’onesta “commensale a pagamento”. Io la amo, questa piccola Mata Hari un po’ pasticciona. Anzi diciamo che se grazie a lei questo cazzo di governo cadrà, la venererò come una contemporanea Giovanna D’Arco che ha compiuto un grande miracolo. Perché in America la Lewinsky apparentemente si è sbattuta molto di più e ha ottenuto giusto un quarto d’ora di celebrità. Perché in Italia non è stata la conclamata incapacità governativa o l’immobilismo politico a far tremare e, auspicabilmente, tracollare l’establishment. E’ stata una cena. Con Ruby.

Friday, February 04, 2011

WORKING CLASS HERO

“Buona giornata. Come va?” E’ sorprendente. Essere salutati da chi non si conosce, dico. E’ una locuzione formale. Nell’oscillazione fra l’ipotesi di risposta “fatti i cazzi tuoi” e quella “bene grazie”, mi porta sempre a optare per il silenzio. Perché penso subito che c’è la fregatura. L’equazione primatisalutopoitivendoqualcosa. Però oggi c’è il sole. E’ venerdi. . Un “bene grazie” ci sta. Distratto, tirato su insieme al bavero del cappotto, buttato nel vuoto o nei pochi passi della discesa verso il mio Spielberg professionale.

“Posso rubarLe un secondo?”. Adesso mi fermo. Tento un rapido atterraggio. E comincio a infastidirmi. Per il Lei. Un tempo (rimpianto), segno di rispettosa misura, oggi inequivocabile riconoscimento di decadenza senile. O di inferiorità sociale. In ogni caso alquanto odioso. E poi quella richiesta di un secondo che realizza, come previsto, l’equazione della transazione. Ormai ci sono dentro. Ho abboccato all’amo e, in effetti, il “salutatore” misterioso si avvicina . Non troppo. Rimane un po’ defilato. Come uno spacciatore di droga, se non fosse che i pusher non salutano il primo che capita. Mi avvicino io. Con aria scocciata. Con quel senso di alterigia borghese per cui provo un orrendo ribrezzo, ma che so rappresentare con impeccabile maestria. Resto in silenzio. Davanti a me ho un ragazzo. Vent’anni, vari materiali cartacei sotto il braccio e zaino in spalla. Mi rendo conto che è imbarazzato. Molto imbarazzato. Passa al tu. Forse presagendo che comunque un roboante vaffanculo se lo porta a casa comunque e a quel punto non è il caso di fare tante smancerie. Sottovoce, come se si trattasse di merce illegale, lascia scivolare un “Ti interessa Lotta Comunista? Costa un Euro ma qualcuno ce ne da 5 per sostenerci”.

Oh.

Cazzo.

Penso…

Sento i canini premere per scendere dalle gengive. Sento l’urgenza della gola di schiarirsi e di parlare. A voce alta. Per far capire al coglioncello che se abbiamo“il re del bunga-bunga” come sovrano, le sue cortigiane come ministre e tutto il resto la colpa è anche di “quellicomelui”. Che hanno fatto del loro meglio per distruggere la sinistra italiana sotto i colpi di una ottusa coerenza intellettuale picconatrice. Vorrei dirgli che a forza di martellarci i coglioni, i coglioni li abbiamo persi o perlomeno atrofizzati. Vorrei dirgli di andare affanculo.

D’altra parte “fra comunisti si fa così”.

Non gli dico un cazzo.

Tiro fuori cinque Euro e prendo il giornale.

Ha solo vent’anni. Non gli voglio rovinare la giornata.

Ci crede, il giovane e timido kamikaze e -cazzo – quelli che credono, a me piacciono.

Tiro fuori cinque Euro, prendo il giornale e gli dico “Sai di essere in territorio nemico vero?”

Lui accenna un sorriso. Può tranquillizzarsi. E mi risponde fiero: “ i partigiani mica stavano al Luna Park”. I canini si ritirano. Lo sguardo si illumina e incontra il suo.

Il ragazzo ha del fegato e buon sangue.

Mi passa anche un volantino: c’è il numero del collettivo da chiamare per partecipare a un fitto programma di incontri.

Prendo tutto. Prendo il suo sorriso. Il fuoco dei suoi occhi. E quello di un’idea, che in tempi di pornopolitica e di autismo socialnetworchico, è merce rara, preziosa e importante. Ha solo vent’anni. Vuole cambiare il mondo. Vuole farlo ora. Nell’unico momento in cui c’è la folle nergia, che serve allo scopo.

Poi si cresce. Non si cambia più niente. Non cambia niente.

E allora ci si lamenta - come vecchi veterani di guerra - e si borbotta sotto il bavero attraversando le porte automatiche di oscuri palazzi di vetro e metallo.

Come se i tempi in cui si correva forte e si rischiavano le botte noi non li avessimo mai vissuti. Io no. Lasciandomi le porte di vetro alle spalle sento che no. Io ci sono stato. Poi ho subito il fascino del Luna Park e mi sono perso.

Oggi, quindi, mi merito il Lei da parte del “giovane kamikaze”. Ma anche un timido sorriso. Di quelli che fanno tornare la voglia di mangiare il vento.