Wednesday, May 24, 2006

LE SCAPOLE ALATE DI FINN - capitolo 2

GLI OCCHI DI MIA MADRE

Il mio sodalizio con Troy è, in pratica, terminato al compimento del mio diciottesimo compleanno. Una data che ha tracciato una vera e propria linea di confine. Mi piacerebbe poter dire che sono andato via di casa se ci fosse un luogo fisico che io avessi mai riconosciuto come casa mia. Spesso non è stato così. Con mia madre abitavo le stravaganti dimore dei suoi compagni in un va e vieni di uomini che duravano il tempo che duravano. Forse il periodo a casa di Troy è stato il più complicato. Non ho mai capito come mia madre potesse provare un sentimento di qualsiasi genere per un uomo che viveva narcotizzato da un amore interrotto. Annullato nell’abbandono della moglie che era andata via. Lontano e per non tornare più. Un uomo che aveva lasciato a mia madre la facoltà di rivoltargli la casa per farne, definitivamente, il luogo della solitudine. Il luogo dell’assenza. Forse per questo, nonostante la mia tenera età, ho sempre faticato a riconoscere l’ombra di una figura paterna nel padre di Troy. Forse per questo mia madre non ha mai trovato la benché minima corrispondenza affettiva né in Troy, né in suo padre. Ricordo i silenzi. Il rito serale di una cena con i suoi occhi bassi sul piatto. Ricordo la sua insofferenza al fardello delle convenzioni sociali borghesi. Ricordo qualche raro sguardo implorante dritto agli occhi dell’avvocato che inevitabilmente si schiantava contro il muro dell’indifferenza. Ricordo il suo pianto silenzioso e dimesso. Fonte di enorme sconcerto per un bambino così poco abituato alle perversioni dell’amore inventato.
Mia madre non è mai stata una donna debole. Altrimenti non avrebbe mai potuto sopravvivere alla sequela infinita di sconfitte che hanno segnato la sua vita intera. Come me ha l’orgoglio inossidabile della sua terra. Per questo, l’assenza di un luogo fisico che potessimo riconoscere come casa nostra non era che un fatto marginale. Il nostro rifugio erano i nostri occhi. I suoi erano verdi, ma per me erano soltanto due piccoli laghi neri, per via del daltonismo. Mi piaceva però, mentre prendevo sonno, immaginarli di colori diversi, come se accogliessero le mie emozioni mediandole con i suoi stati d’animo. Ecco quindi che diventavano celesti e glaciali, quando mi sforzavo di capire senza riuscirci. Prendevano il colore della terra quando sentivo che la terra mi mancava sotto i piedi, diventavano piccoli e raggianti quando stava semplicemente ad osservarmi e io fingevo di giocare con lei per sentirla più mia. Erano laghi neri quando si nascondevano dietro la porta del bagno per nascondere le stanchezze della vita.
Mia madre, come me, era di poche parole perché in un suo sguardo c’era tutto ciò che era dato sapere. E se c’era qualcosa che doveva restare nascosto bastava che lei abbassasse gli occhi e io capivo. Io ero nato in una comune del Sussex e anche se a nove anni ero precipitato in quella grossa menzogna milanese quale era la casa di Troy, della mia infanzia avevo conservato il festoso e anarchico entusiasmo di chi sognava di cambiare il mondo con il potere della fantasia, della cultura e delle idee. Stavo male quindi nel vedere quel mondo che, negli occhi di mia madre, andava svanendo giorno dopo giorno. Cazzo, ero davvero troppo giovane per le disillusioni. Non riuscivo ad accettare la dimessa staticità dell’esile corpo di mia madre che fino a poco tempo prima faceva vibrare l’aria ballando fino a tarda notte sotto la pioggia del Sussex.
Non l’ho più vista ballare. Non l’ho più vista ridere a squarciagola, talvolta ubriaca nelle sere d’estate. Di lei mi erano rimasti gli occhi, solo quelli non erano cambiato, solo quelli anche dopo la fuoriuscita dalla casa di Troy erano rimasti immutati. Solo quelli anche nei periodi successivi, sempre più brevi, in cui mia madre aveva un compagno e in quelli, sempre più lunghi in cui rimaneva da sola, erano casa mia.
In caso contrario non so proprio come avrei potuto salvarmi dalla chiassosa spirale egocentrica di Troy. Avevamo più o meno la stessa età, ma mentre io cercavo di crescere lui era come quei serpenti in cui si faticherebbe a riconoscere un cucciolo. Nato solo e per essere solo. Mutevole nella sua tracotante arroganza di bambino disturbato. Non sopportava mia madre (ma in realtà non sopportava nessuna donna che non fosse sua madre o quella sua sorellina che venerava come una madonna). Non mancava di dare segni di evidente fastidio ogni qualvolta sul suo percorso incontrava qualcosa che a lui mancava. Come l’affetto. E allora vi si accaniva contro, tentava di avvelenare ogni sentimento. Tuttavia ogni volta che si uccide qualcuno, a una prima fugace euforia, subentra la desolazione di non avere qualcuno contro cui combattere.
Troy giocava sporco. Tentava di contaminare in ogni modo la mia innocenza. Non voleva amarmi: gli interessava unicamente essere amato da me, scippandomi un sentimento nel quale alla fine restava lui steso invischiato senza via d’uscita. Perché io, solo apparentemente ero fragile e corruttibile. Perché io, avevo mia madre.
Ricordo il giorno, in piena adolescenza in cui lui mi mostrò una rivista pornografica. Io mi eccitai, come era normale che fosse. Non era certo la prima volta che accadeva. Presto cominciammo a toccarci. Prima lentamente poi accelerando fino a sentire l’orgasmo che esplode in gola e venire. Io non ci trovavo niente di speciale: stavo semplicemente scoprendo i meccanismi del mio corpo. Rimasi quindi stupito quando negli occhi di Troy avvertii un’odiosa espressione trionfante. Probabilmente pensava di avermi sottratto l’anima. Dio mio, era solo una sega! Ritrovai puntualmente quella stessa espressione ogni volta che i miei rapporti con le ragazze finivano. A quell’età era normale. Era tutta una sperimentazione. Ogni parvenza d’amore era drammaticamente totalizzante, e poi, ci si svegliava una mattina e non restava niente. Per Troy ogni titolo di coda dei miei rapporti sentimentali preludeva al suo personalissimo sequel. Dio, quanto era assurda questa competizione. E quanto doveva essere faticoso per lui questo gran darsi da fare per rincorrere i miei amori adolescenziali. Per ritrovarsi, come me più solo che mai. Credo che sia una prerogativa degli adolescenti il sentirsi soli. Noi certamente non sfuggivamo a questa regola.

Pochi anni più tardi partimmo insieme per una vacanza a Londra, da mia zia. Insieme a noi c’era Roberta, la cugina. Una ragazza triste: portava anche lei il segno maledetto della famiglia di Troy. Avevamo l’eccitazione della prima volta. La prima volta da soli, senza alcun tipo di controllo. Devo ammettere che nella vita di tutti giorni non è che avessimo grandi vincoli. Ma trovarsi in un Paese nuovo, padroni della nostra vita era sicuramente un’esperienza eccitante. Londra poi negli anni ottanta era un vero crogiolo di vitalità. Notti forsennate, stravaganze di ogni genere, i primi contatti con la droga. Roberta era così distante e fredda. Era tuttavia così drammaticamente sola e le solitudini trovano molto facilmente un punto d’incontro. Giorno dopo giorno le distanze si accorciavano. Prima un timido sguardo, poi qualche bacio in un crescendo di emozioni e ben presto, senza neppure che ce ne rendessimo conto, eravamo pronti a scambiarci la pelle. D’altronde fra adolescenti l’amore è sempre così facile e naturale. Non segue strategie, non risponde a nessuna regola. E proprio perché indifferente alle regole l’amore dei ragazzi è quanto di più fragile e delicato ci possa essere. La mia unione con Roberta inevitabilmente proiettava Troy in uno spazio oscuro e disperato. Lui, che le strategie sapeva già usarle, approfittò di una notte allucinata per appropriarsi di ciò che era mio. Si infilò nel mio, o meglio nel nostro letto, per dare inizio a una maratona sessuale a tre. Una corsa nel buio per schiantarci tutti insieme contro quel muro di assurdità che, nell’oscurità, nessuno di noi era in grado di valutare. Per la prima volta negli occhi di Troy non avvertii lo stupido orgoglio del vincitore. Tutti e tre portavamo il segno della sconfitta vigliacca. Ma nello sguardo di Troy c’era qualcosa in più. C’era il primo segno di una lenta decadenza che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Mi sono sempre chiesto, anche se non ho mai avuto il coraggio ci domandarlo direttamente, se lui davvero fosse così incosciente.
Roberta scomparve dalla mia vita così come da quella di Troy, se non fosse per una piccola serie di ripicche gratuite previste dal protocollo della borghesia. Loro sempre più isolati, io sempre più introspettivo e confortato dagli occhi di mia madre. Occhi di cui ricordo le lacrime, sempre più frequenti e disperate. Un pianto soffocato tra impercettibili sussulti della gola e nascosto dietro una porta. Un’immagine, la sola, che mi accompagna da tutta una vita.
Non riuscirò mai a dimenticare la sua figura statica e pietrificata mentre, a diciotto anni preparavo la valigia per andarmene da casa. Assestai le mie cose con calma. Era un momento importante, di grande euforia per me che finalmente conquistavo il mio status di uomo. Le diedi un bacio fugace per non protrarre oltre l’accettabile l’agonia della separazione e chiusi la porta dietro le mie spalle. Lasciandola li, mia madre, nel suo pianto sommesso. Un pianto lento e infinito, che nonostante si facesse più lontano, ad ogni mio passo sembrava volermi rincorrere. Faceva vibrare l’aria e mi stordiva. E’ strano scoprire che i momenti più naturali della vita sono quelli che provocano più dolore. E’ crudele scoprire che i momenti più naturali della vita sono proprio le assenze. Così ineluttabili e definitive. Sono passati diciassette anni. I primi anni della mia vita da single frequentavo mia madre abbastanza spesso. D’altra parte vivevamo nella stessa città ed era quindi più che normale che almeno parte del fine settimana lo passassi con lei. Talvolta mi accompagnava a comprare i vestiti che io, se non altro per il mio daltonismo, non ero assolutamente in grado di scegliere. Altre volte mi aiutava a scegliere le cose per la casa, le risposte a bisogni che io ignoravo totalmente. Risposte che puntualmente restavano inscatolate e accatastate qua e là nel mio modesto appartamento. Spesso, più semplicemente, lasciavamo scorrere il tempo in lunghe passeggiate. Lente, leggere e senza pensieri. Camminate che si concludevano sempre sotto il portone di casa mia. Quella casa, la stessa in cui vivo ora, in cui mia madre non ha mai voluto entrare. Quella casa in cui, forse, io non l’ho mai fatta entrare per la paura che avvertisse la puzza della mia solitudine. Anche in quelle occasioni c’era un portone che si chiudeva e qualcuno che rimaneva fuori con gli occhi pieni di lacrime.
Successivamente i nostri incontri si fecero sempre più rari. Talvolta perché la mia casa e la mia vita erano occupate da una donna. Una donna che sceglieva i miei vestiti e che mi accudiva. Una donna che riempiva il mio letto e che mi stava di fronte seduta al tavolo per la cena. Una donna che condivideva con me ogni istante del mio tempo. Una donna che se ne andava. Allora ero io a versare lacrime dietro una porta che si chiudeva. Allora ero io a riprendere contatto con mia madre. E’ incredibile quanto possa essere opportunistico il rapporto tra madre e figlio. E’ incredibile come solo il vuoto ci porti la consapevolezza delle persone che amiamo.
Tuttavia in questo continuo separarsi e ritrovarsi qualcosa finiva perduto. Gli incontri divenivano sempre più brevi e convenzionali. Non parlavamo quasi più. Non uscivamo più. Restava un dialogo fatto di sguardi. Qualche domanda sullo stato di salute e in pochi minuti lasciavo quella che una volta era stata casa mia. La porta ancora una volta si richiudeva dietro le mie spalle. I miei passi lungo le scale ancora una volta venivano rincorsi dal pianto di mia madre.
Oggi gli incontri sono più che mai rarefatti. Anche se non c’è nessuno che condivida la mia vita. Anche se sono solo. Ci vediamo più o meno una volta al mese. Lo stretto necessario per mantenere vivo un legame che sempre più, si nutre di assenze. Forse nell’angolo più remoto della nostra anima siamo riluttanti ad accettare i segni del tempo e i cambiamenti che comporta. Se prima ero io ad avere bisogno di mia madre, a cercare in lei le risposte alle mie insicurezze e il nutrimento della mia voglia di crescere, ora, che sono un uomo, è lei che ha bisogno del mio sostegno per abbandonarsi al tempo che passa. E questo, per due persone come noi è davvero difficile da accettare.
E’ preferibile continuare a portare dentro di se ciò che è stato, pensare che non è mai cambiato e che forse non cambierà mai. Faccio fatica a smettere di essere figlio. Allo stesso modo non ho alcun diritto di costringere mia madre ad entrare in uno spazio interiore, il mio, in cui si perderebbe per il semplice fatto che non le appartiene più.

O forse, nell’avanzare della mia vita, mi è difficile sopportare la violenza di quelle lacrime silenziose dietro una porta che si chiude.

Tuesday, May 16, 2006

LE SCAPOLE ALATE DI FINN - capitolo 1

IO SONO FINN

Ho 34 anni. Questo l’ho già detto, ma la confusione di questa giornata dell’indipendenza mi chiede di centrarmi su me stesso e sulla mia identità. Io sono uno qualunque. Faccio l’impiegato e vivo in un modesto appartamento ai margini del centro città. Sono single, una condizione che vivo con sofferenza. D’altra parte la solitudine è spesso è l’unica strada per rimanere se stessi e non sbarellare. Non voglio finire come Troy e affogare in un delirio televisivo. Il mio cuore è una stanza in cui cerco da tempo di fare un po’ d’ordine: quando sarà pulita aprirò la porta. C’è così tanto spazio. Ci vorrà tempo. D’altra parte, mentre Troy nel suo delirio apocalittico si era completamente staccato dal mondo degli uomini, io nel mondo degli uomini vivevo la mia straordinaria quotidianità. Vivevo la semplicità delle mie radici. Vivevo il mio mondo in bianco e nero, a causa di un feroce daltonismo, ma dei colori avvertivo le vibrazioni. Vivevo di sensazioni. Così profonde e potenti da farmi girare la testa fino a perdere i sensi. Non ho mai compreso la frivolezza malata di Troy, questo suo prostituirsi a se stesso. Ora che Troy mi ha liberato dalla sua ottusa presenza l’ho capito. Troy oltre la sua ostentazione dell’assoluto non era niente. Per questo non ne avverto la mancanza. Per certi versi gli sono grato. La mia crescita la devo alla distanza che ho saputo creare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, fra me e lui. Non riesco e non voglio demonizzarlo. Sapevo fin dall’inizio che quel gioco perverso di cui, secondo lui, io ero vittima prevedeva in realtà un solo giocatore. Troy. E per chi gioca con se stesso vittoria o sconfitta non sono che due enormi bugie. Lui così incapace di fare ogni scelta. Io che nella mia fragilità, sceglievo ogni minuto della mia vita. In silenzio, senza ostentazioni. E quelle rare volte che perdevo il rispetto di me stesso e mi allontanavo dal mio baricentro era solo per metterlo meglio a fuoco. Per questo da tempo ero ormai lontano dai trambusti psichedelici delle notti all’impazzata. Per questo ero e sono così solo. Solo e distante. Solo e silenzioso. Vivo in assenza di Troy, il mio ingombrante fratello opposto. Sarei riuscito anche a volergli bene se lui me l’avesse permesso. Ma in lui c’era così poco di umano. Non si può amare veramente chi non possiede la più pallida traccia di sentimento. Provavo una gran pena nel vederlo consumarsi giorno dopo giorno come una belva che, non avendo più la possibilità di trovare prede da mangiare, finisce con mangiare il suo stesso corpo.
Lui affogava nel tempo mentre a me, ancora adesso, il tempo non basta mai.

Sono isolato. Lo sono da qualche anno. Da quando ho scoperto che, per stare bene, ho bisogno di silenzio. Nel silenzio emerge il mio presente, il mio passato e riesco a mettere un po’ d’ordine tra i mille pensieri che affollano la mia mente. Ciò naturalmente non significa che ho rinunciato alla vita. Lo ribadisco: non sono Troy. E’ che questo mio vivere di emozioni che si accavallano come le onde marine talvolta mi costringe a prendere un respiro di sollievo. Rischio di perdermi. E poi c’è un’ossessione. Affascinante e malinconica. Quella dell’incompiuto. Per tutta la vita ho avuto la sensazione di percorrere strade che, a un certo punto si interrompevano. Il fatto è che io non me ne accorgevo e proseguivo comunque. Io credo di essere nato, pur nel limite della mia vista in bianco e nero, per guardare oltre. Troppo. All’inizio, quando ero un ragazzino, mi sembrava normale. Gli adolescenti, spesso, vivono una vita inventata. Poi, crescendo si prende coscienza della realtà e questa condizione mette la parola fine ad ogni stadio e apre il successivo. Ma per chi come me possiede una vita interiore così potente fermarsi è praticamente impossibile. Tutto si svolge all’interno dell’anima e ha fine solo quando è l’anima stessa a mettere la parola fine. L’anno scorso ho amato una donna. Una storia di una notte come tante. Una storia di una notte così intensa. Ho trascorso mesi a coltivare la mia attrazione per quella donna. Andavo in palestra ogni giorno e poi ogni sera cercavo di capitare, per caso, in tutti i posti che lei frequentava. La salutavo discretamente e poi me ne stavo in silenzio. Osservandola quando ero certo che lei non mi guardava. Mi agevolava il fatto che frequentavamo praticamente le stesse persone e che, pertanto, riuscivo a fare in modo che la mia privata ossessione non diventasse una persecuzione per lei. E’ stato necessario quasi un anno perché maturassi la consapevolezza dell’inconsistenza della mia attrazione. Molti, Troy compreso, hanno sempre visto questo mio lato della personalità con immensa pena. Io no. Sono sempre stato molto orgoglioso del miei sentimenti. Anche quando erano rivolti verso il buio. Anzi era proprio in quel buio così silenzioso il mio rifugio in cui ascoltavo il flusso del sangue nelle vene. D’altra parte l’incompiutezza mi dava spesso il senso dell’orizzonte: era ed è una porta sempre aperta. Per questo la mia vita è sempre piena di nuovi progetti. L’unico vero problema è che a nessuno di questi progetti riesco e mettere una data e un luogo. E’ un pericolo. Si rischia di impazzire. Non sarà così per me. Non sono Troy. Guardare dentro me stesso non è come gettarsi in buco nero. Amare qualcuno, anche se è un fatto del tutto personale e privato è ben diverso dal votarsi a un’icona televisiva. Scegliere di essere ordinari è ben diverso che costruire nel deserto il tempio della propria apoteosi e farselo crollare addosso.
Io, anche nel mio isolamento, cerco di non perdere mai il contatto con la realtà. Io con la mia vista in bianco e nero, sono attento ad ogni minima sfumatura. Sono così diverso dalla borghesia bardata a lutto che oggi affollava i funerali di Troy. Tutti li a recitare il proprio il dolore per una persona che era già morta da tempo e di cui, da tempo, tutti avevano perso il senso della presenza. Non sono e non voglio essere cinico. Troy era impossibile da amare. Io ci ho provato e ho messo a rischio molto di me. Anche nei giorni che hanno preceduto la sua dipartita, quelle rare volte che mi capitava di incontrarlo provavo una sorta di fastidio fisico nel contatto, nonostante abbia passato gran parte della mia vita con lui. Nonostante il suo aspetto stralunato e debilitato lo rendesse la persona apparentemente più fragile e vulnerabile della terra. Non voglio dire che lo odiassi. Allo stesso modo era impossibile odiare Troy. L’unica stretta al cuore dietro la sua bara l’ho avuta proprio nell’istante in cui mi sono interrogato su cosa provassi per lui. Niente.
Probabilmente neanche di me rimarrà qualcosa quando me ne andrò. Neppure mi interessa. Io vivo per me, non ad uso e consumo di altri. Io, nella mia vita, sono stato amato. Anche quando sono stato catapultato in quel crogiolo di ipocrisie della famiglia di Troy mia madre mi ha sempre e comunque protetto. Non sono mai riuscito a provare rancore per lei, neppure per le sue scelte talvolta sciagurate. Sono infatti certo che, poco o tanto, ha fatto tutto ciò che poteva per me e di questo, ancora oggi, non posso che esserle grato. Ogni tanto se guardo indietro nel mio passato provo un po’ di spavento. Troppe volte non sono stato particolarmente fiero di me. In una notte come questa vorrei che il passato fosse seppellito insieme a Troy, ma so che non sarà così. Il tuo peggiore passato ti sorprende quando meno te lo aspetti. Ti aggredisce quando sei più fragile e vulnerabile e ti toglie il respiro. Ormai, anche a questo sono dolorosamente abituato, e forse il fatto di riuscire per la prima volta a metterlo a chiare lettere nero su bianco mi aiuterà a conviverci meglio. Io non sono così abituato alla vita. Una volta mia madre mi ha portato da uno di quegli strani personaggi che utilizzano l’ipnosi per andare a sondare le esistenze precedenti. E’ stata un’esperienza traumatica. Sembra che io sia alla mia prima incarnazione. Precedentemente ero una creatura spirituale. Una sorta di angelo. Io francamente a queste cose non credo. Però la mia personalità così introspettiva e, talvolta, irrazionale in qualche maniera rende giustizia a quella profezia al contrario. Sono impenetrabile nei miei silenzi, ma forse perché ormai la superficialità della gente non permette più di oltrepassare il limitato codice della parola. Non coglie più l’universo che sprigiona da uno sguardo. Tutto ciò mi rende difficile una vita sociale “normale”. Anche Troy si arrabbiava molto quando, di fronte alle sue anfetaminiche rappresentazioni io rimanevo in piedi, in silenzio. Così come le mie occasionali compagne non riuscivano a mettersi in comunicazione con i miei silenzi e, da quel vuoto per me così rassicurante prendevano rapidamente le distanze. Comunque non sono un angelo. Sono un uomo. Gli angeli sono parte di un sogno, io non sogno quasi mai. Sono consapevole di ogni singola cellula del mio corpo, di ogni singolo respiro e di ogni singolo passo. L’eventualità di avere un passato limitato alla vita che sto vivendo non mi disturba. Né mi chiedo se avrò un’altra vita. Mi basta quella che ho perché credo che sia proprio la sete di eternità ad uccidere gli uomini. Uomini che ormai non sanno più accettare di essere semplicemente tali.
Troy, in questo senso, con la sua folle corsa nell’assurdo ne è l’esempio più concreto. E’ morto nel suo folle tentativo di essere immortale. Ha passato gli ultimi tempi a riempirsi la testa di cocaina come se quello fosse il suo stargate per il paradiso televisivo di coma-girl. Pensava che il mondo avrebbe fatto di lui un eroe decadente. Il mondo l’ha dimenticato ancora prima di accorgersi della sua esistenza, perché questa è la regola. Chi non vuole essere di questo mondo in questo mondo non ha spazio. E non ha più tempo.

Sunday, May 07, 2006

LE SCAPOLE ALATE DI FINN - prologo

TROIA E' IN FIAMME

E’ una notte d’estate troppo calda, densa d’umidità e di stelle. La tangenziale est è vuota e il pensiero vaga sulla morte di Troy. Troy è morto oggi, nessuno sa come, nella misura in cui nessuno riesce a non essere ipocrita per dare un nome alla morte di Troy. Overdose di cocaina forse, ma sarebbe meglio dire overdose di se stesso. D’altra parte si sapeva che sarebbe finita così: l’unica cosa che davvero mi fa male è che la dipartita di Troy è stata davvero diversa da come lui se l’era immaginata. “Troy è morto” e basta. In quelle poche sillabe scandite al telefono dal padre in un attimo di gelida commozione erano un fatto, uno dei tanti. Ben lontano dalla faraonica rappresentazione della vita di Troy. Un attimo di cruda realtà con l’imbarazzo di dover affrontare i due giorni di canonizzazione che normalmente precedono l’inumazione del cadavere. Imbarazzo plausibile d’altronde per il fatto che di Troy non c’era davvero niente da poter dire. Io sto soffrendo perchè non soffro. Io, che davvero ho tentato e ritentato di amare Troy. Contro tutto e tutti con l’ostinazione di scavare all’interno dell’iceberg alla ricerca di un diamante. Io che, in fondo non ci sono mai riuscito perchè, sotto l'iceberg, del diamante non vi era che un pallido riflesso. Cercare di conoscere Troy era più difficile del trovare l'ubicazione del Santo Graal. Ora, che è morto, mi rendo conto che sono finalmente libero da quella tirannica sudditanza a cui sono stato quotidianamente sottoposto per tuttti gli anni della mia adolescenza. E' come liberarmi di un dio in cui non ho mai creduto e, pertanto, assolutamente privo di ogni consistenza.
Mi chiamo Finn, Finn O’Brien. Un nome che è un tributo all’Irlanda, la terra da cui vengo. Un nome che è un cognome, quello dei Finnegan celebrati da James Joyce. Della mia patria ho tutto. Ho un cuore di terra e di pioggia, ho un cuore di pioggia di sangue, ho un cuore di vento salmastro. Quel vento che tra i miei conterranei scava rughe in fronte tanto profonde che ci puoi leggere l’intera storia del mondo. Della mia terra ho la rassegnazione di chi sa di dover combattere per tutta la vita contro forze divine che ti tagliano le gambe e, subito, te ne danno di più forti per battaglie ancora più dure. A me la resa non sarà mai concessa, uomo nel vento, esploro le nebbiose oscurità del mio io, scendo nel mio inferno privato per risalirne più uomo. Della mia terra non ho molti ricordi, me ne sono andato quando ancora ero molto piccolo. Tuttavia i ricordi che scorrono vivi nel mio sangue sono quelli di tutto un popolo nato sotto il segno di Caino, orgoglioso della propria vita disperata e saldo nella propria determinazione senza causa.
Ora ho 34 anni. Ora ho deciso di scrivere la storia della mia vita, o piuttosto una parte di essa, quella che posso raccontare senza togliermi il tempo di viverne altrettanta, fino al momento in cui anch’io potrò, orgoglioso, mostrare al mondo intero rughe così profonde da nascondere l’intera storia dell’universo.
Dedico tutto ciò a me stesso, a mia madre e a tutti coloro che il mio cuore può contenere. Vorrei dedicare tutto ciò anche a Troy, involontario ispiratore di quanto mia accingo a raccontare. In realtà ciò che mi accingo a raccontare deriva dalla necessità di liberamene una volta per tutte. Addio Troy.